martedì 8 dicembre 2009

Raymond Carver #2

Testo nato dall'articolo pubblicato il 20.11.2009 da La Voce di Romagna, a firma di Davide Brullo (e riportato in calce).

Vuoi star zitto, per favore”? No. Come si fa a star zitto di fronte ad una violenza ingiustificata, seppur verbale? Ecco perché torno, dopo aver a lungo meditato, ancora su Carver. Perché Brullo ha pubblicato sulla Voce alcune Opinioni travestite da Verità. Per esempio sul tema della “volontà” dell'autore, di Carver, che secondo Brullo è fedelmente rispettata nel testo pubblicato (se l'autore non mette la sua firma sull'ultima bozza, non si pubblica niente).

Raymond Carver nel luglio del 1980 scrive a Gordon Lish, il suo editor, a proposito di una raccolta di racconti, “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”, di prossima pubblicazione. “Ti prego, Gordon, per l’amor di Dio, dammi una mano e cerca di capirmi… Sono costretto a chiamarmene fuori. […] Devo a te questa vita più o meno interessante che faccio ora. Ma se accetto questa cosa così com’è, non sarà un bene per me. [...]Qui è in gioco il mio equilibrio mentale… Lo sento: se il libro fosse pubblicato nella sua attuale forma revisionata, non riuscirei più a scrivere un altro racconto”.

Invece il libro uscì come lo voleva Lish: fu un successo straordinario. Dalla raccolta successiva, “Cattedrale” (1982) la gomma del suo editor si fece molto meno invadente, anche per la maggior sicurezza acquisita dall'autore: il nuovo libro di Carver venne accolto con entusiasmo dalla critica e dagli estimatori.

Insomma: tagliato, oppure “conforme” all'originale, il nostro ebbe ugualmente successo. Rileggere “Principianti” (il vero titolo di “Di Cosa parliamo quando parliamo d'amore”) appena pubblicato da Einaudi, diventa allora un esercizio interessante per capire cosa era stato 'mondato' da Lish, riscoprendo un inedito Carver.

Detto questo, veniamo ad altro. Se andiamo dietro al discorso di Brullo – che si ripete in quasi tutti gli articoli che Davide scrive - alcuni libri sono irrinunciabili, altri si possono tranquillamente saltare. Sono assolutamente d'accordo: però lo posso dire solo per irrinunciabile e umana esperienza.

Ritengo infatti che il percorso di un lettore debba essere sì illuminato dalle dritte di chi ne sa di più, anche di un Brullo, per esempio: però chi legge ha anche il sacrosanto diritto di lasciarsi irretire da una copertina (così ho scoperto “Pastorale americana” di Roth, meraviglioso) o invitare da un titolo ammiccante (così ho preso “Amsterdam” di McEwan, bruttino) o da una quarta di copertina ben scritta: perché – come scrive Nick Hornby: "...da lettura nasce lettura e uno che non devia mai da un elenco prestabilito di libri è già intellettualmente morto...".

Anche nei libri brutti si può trovare quella pagina, quella frase, quella riga, che ti colpisce e che ti cambia – o prova a cambiarti – la vita. Diffido dai maestri che ti dicono “Questo lo devi leggere, questo no”, anche se la vita è breve e tempo per leggere non ce n'è. Perché la libertà (disciplinata), è tutto: anche nella scelta degli autori; e libertà vuole anche dire sbagliare libro, tanto basta chiuderlo e aprirne un altro, male che vada lo rivendi o lo regali a qualcuno. I consigli, insomma, sono sempre bene accetti, le imposizioni no.

Detto questo: Carver per me resta un grandissimo autore, come lo è anche Tolstoj: ma è solo il mio parere, uno dei tanti, chissà se a qualcuno interessa. Ciò che è veramente importante in un dibattito, non è convincere a tutti i costi - arrivando anche a percuotere verbalmente l'avversario di turno - ma aprire infinite porte, o solo qualche porta in più, dalla soglia della quale invitare il lettore ad affacciarsi, per guardare oltre. Con la massima libertà di chiuderle e di dire: “No, grazie”.

Concludo spezzando una lancia in favore di Fernanda Pivano, prima messa un po' alla berlina da Brullo per aver tradotto nella fanciullezza Edgar Lee Master (che sì, sarà un autore non di primo piano, ma che c'entra questo con una traduzione ben fatta?) e aver proposto Bob Dylan come Nobel per la letteratura (perché, non è un poeta dei nostri tempi?); poi massacrata con parole irriferibili (vergogna!).

Sì, la Pivano non è Croce. Il suo metodo critico è infatti qualcosa di straordinario e di semplice al tempo stesso: Fernanda non si limitava a leggere un libro per presentarlo o commentarlo, ma voleva conoscerne l'autore, dove viveva, cosa mangiava, come si vestiva, per poter cogliere con maggiore profondità e onestà la genesi di questa o quell'opera.

Nel ciclo della “Fondazione” di Isaac Asimov – per citare un libro che forse Brullo usa per pareggiare le gambe del tavolo della cucina – si parla di un futuro in cui la civiltà ha smarrito la “scienza pratica” su cui si regge la vita (nessuno sa più, per esempio, come si ripara un reattore nucleare: di conseguenza l'intero universo che si fonda sull'energia atomica, rischia di regredire in un'epoca pre-rivoluzione industriale) per aver sviluppato esclusivamente il “pensiero sul pensiero”. Un archeologo afferma, in uno di questi volumi, di non aver bisogno di andare a scavare con la paletta in un sito per ragionare attorno ad una civiltà del passato, perché gli è sufficiente discettare di questa o quella teoria, propendendo per l'una o per l'altra. Ecco: Fernanda Pivano ha dato corpo e volto alle parole – dei critici, degli editori, degli stessi autori – a volte un po' vuote, a volte un po' inutili; rivelando l'umanità dietro il mito letterario, riportando coi piedi per terra chi è solito “prendere lucciole grafiche per lanterne esistenziali”.



lunedì 30 novembre 2009

Il figlio del Nigher

Alcuni anni fa il figlio del Nigher si è suicidato, mi è tornato in mente oggi. Ha inghiottito in un momento forse di disperazione il liquido delle batterie delle autovetture. E' stato subito male e ha chiamato aiuto. Trasportato d'urgenza in ospedale, è andato in coma e poi è morto.

Suo padre era detto il "Nigher" non perchè fosse nero, ma perchè era scuro di pelle, bruciato anzi. Si chiamava Angelo Brignoli. Era un uomo basso, ancora più basso perchè era magrissimo e con l'età si era anche incurvato. Aveva la pelle stiracchiata, rugosa, con un naso aquilino pronunciato. Non alzava mai la voce, ma dicevano che alzasse invece il gomito. Portava i pantaloni allacciati in vita, molto alti. In bocca, teneva sempre la sigaretta. Per un po' di anni aveva lavorato come "strasèr", in un piccolo magazzino che insisteva su un campo che possedeva. Lì teneva dei cani, degli alberi da frutta. Proprio davanti al capannone di mio padre. Per questo lo conoscevo e mi ricordo di lui.

Sua moglie, che è ancora viva, portava i capelli raccolti in uno chignon, e ricordo che li aveva sempre avuti grigi, anche prima di invecchiare. L'espressione del viso era arcigna, come se fosse un po' arrabbiata o scocciata. Avanzava lungo la via Matteotti con la bicicletta: non sapevo da dove venisse, ma dalla fatica pensavo che venisse da lontano. Una volta il nostro cane, uscendo dal cancello, l'ha spaventata. E' caduta. E ricordo il suo ginocchio sanguinante, la calza smagliata e lei, più furiosa che spaventata, che risaliva sulla bicicletta e faceva dietrofront, per tornare a casa a cambiarsi, probabilmente.

Il figlio del Nigher, invece, era alto, magro anche lui. Non ricordo il suo nome, forse Giuseppe. Era un ragazzo buono, ma sofferente. Da piccolo aveva avuto una brutta meningite. Poi aveva ucciso con un colpo di fucile la sorella o il fratello, non ricordo bene. Un incidente. Ma qualcuno poi disse che in realtà il colpo era partito a qualcun altro, e che era stato incolpato lui, perchè era piccolo e non potevano fargli niente. Forse da lì è partita quella sofferenza, quel tormento che, unito ai postumi della meningite, lo avrebbe accompagnato sino all'ultimo giorno. Non era brutto, ma era figlio di suo padre, e questo nell'opinione comune era già una predestinazione.

Mio padre l'aveva preso a lavorare con sè, ed è per questo che io l'ho conosciuto. Il figlio del Nigher lavorava indefessamente, quando stava bene. Preciso, vigoroso, stringeva il fil di ferro per legare le balle di cotone digrignando i denti e mi insegnava a fare i nodi. Lui li faceva in modo diverso, io avevo imparato da qualcun altro. Chiacchieravamo poco, ascoltavamo la radio e passavamo le giornate fianco a fianco. A volte tornava a casa. Andava in ufficio da mio padre e gli diceva che aveva mal di testa, e mio padre lo lasciava andare. C'erano periodi in cui tutto andava bene. Altri in cui non sapevi se veniva a lavorare, quanto sarebbe rimasto; anche quando stava male, accadeva improvvisamente. Fumava pure lui, come suo padre, e quando si avvicinava il momento dell'amnesia, della caduta in quella che forse era depressione ma più probabilmente una malattia mentale, si accendeva una sigaretta dietro l'altra. Mio padre gli aveva proibito di fumare nel capannone, perchè le balle erano altamente infiammabili, ed era pieno di polvere. Quanta polvere.

Però aveva un qualche cosa, nel suo modo di essere, che esprimeva una grande dignità: ed è questo ciò che ricordo con maggiore piacere. Stava tutto dritto, e anche lui portava i pantaloni allacciati in alto, oltre la vita, come faceva suo padre. Lavorava e mi dava un esempio, e sapevo che aveva dei problemi, ma nessuno mi aveva insegnato come comportarmi con lui. Mi piaceva la sua compagnia, quando stava bene. Nel prato che mio padre ancora ha vicino al magazzino, delle volte si fermava con noi ragazzi a tirare due tiri con il pallone, ma poi sorrideva abbassando la testa, come se la cosa non fosse per lui, in un modo che lasciava intravedere anche una certa timidezza, del riserbo.

Ma solo adesso posso cercare di capire, guardando indietro, la sua sofferenza silenziosa, adesso che ho messo sulle spalle almeno 15 anni da quei giorni. Me lo immagino, in preda ad un momento di follia e lo vedo ingerire quell'acido.; e poi, tutto d'un colpo, rinsavire, per rendersi conto dell'enormità che ha appena compiuto. Lo vedo con gli occhi pieni di paura.
Poi, più niente.

domenica 22 novembre 2009

Raymond Carver #1

Una risposta all'articolo pubblicato da Davide Brullo su La Voce di Romagna in data 15.11.2009; il testo che segue è stato pubblicato in data 19.11.2009.

Quando viene pubblicato un articolo di Brullo, sorrido e mi chiedo sempre: “Ma che, fa davèro”? Perché nel modo di Davide di porgere le sue idee al lettore, di spingere sempre un pizzico oltre il crinale del lecito le parole, c’è un che di autocompiacimento e di gusto per il paradosso letterario.

Così, quando mi hanno fatto notare il pezzo molto ingeneroso dedicato a Raymond Carver, uscito domenica scorsa sulla Terza Pagina della Voce di Romagna, mi sono chiesto: “Ma che, fa davéro”? Solo che stavolta, proprio per aver toccato un autore che amo molto – e, convengo coi più, l’amore fa vedere tutto rosa – non posso non prendere anche io la penna e stare al “Brullo’s game” e cercare di prendere per mano il lettore, e lo stesso Davide, per smontare il suo impianto accusatorio mosso contro Carver e l’operazione Einaudi.

Anzitutto è scorretto paragonare Tolstoj e Carver (Brullo, ovviamente, stravede per il primo). Tolstoj – e prendo in prestito le parole di un caro amico che di letteratura ne sa - fu un grandissimo autore di racconti e storie brevi, d'accordo: ma allora quanti ne potremmo citare? Poe era scarso? Hemingway un dilettante? E Borges e Cortazar degli analfabeti? E Maupassant, Cechov, Hawthorne, Melville? E le "centurie" di Manganelli? E le gemme fantascientifiche di Bradbury, di Matheson, di Sturgeon, di Ballard? Fare classifiche in letteratura è un gioco antico quanto il mondo – che non ha inventato Davide – divertente, certo: ma del tutto privo di utilità e di fondamento.

Anche Raymond Carver era un maestro della short story, e qui lascio parlare Fernanda Pivano: “Il suo stile si è rivelato asciutto e muscoloso, influenzato enormemente da Hemingway; e la sua descrizione di un mondo privo di sentimentalismo dove incalzano problemi economici, rapporti personali difficili e disoccupazione, il mondo cioè delle sue esperienze personali fino a rasentare l’autobiografismo, ha segnato tute le caratteristiche del Minimalismo”.

A Davide, che accusa Carver di “non aver mai messo il naso fuori dalla cucina” cosa si può obiettare? Carver riflette il suo tempo, e come tale ne è diventato un cantore universale, con il suo stile scarno, disadorno ma vivido, quasi violento. Per smontare il mito del sogno americano gli è bastato narrare di un frigorifero rotto e del gocciolio dell’acqua “che stava scolando sul linoleum dal bordo del tavolo”, fissando la scena di ‘Conservazione’ sui piedi di un uomo che tornano tragicamente, inevitabilmente, a distendersi sul divano – come se ogni tentativo umano di cambiare la storia, la propria storia personale, fosse impossibile. Oltre alla desolazione, d’altro canto, Carver è capace di regalare lampi di gioia – semplice magari, ma vera – inattesi, improvvisi, come nel finale di ‘Cattedrale’ dove Robert si fa condurre da un cieco e dice “[…]Le sue dita guidavano le mie mentre la mano passava su tutta la carta. Era una sensazione che non avevo mai provato prima in vita mia. […]Tenevo gli occhi ancora chiusi. Ero a casa mia. Lo sapevo. Ma avevo come la sensazione di non stare dentro a niente”.

Ancora Fernanda Pivano, citando Bill Buford, scrive: “A parlare [nei suoi racconti] non è tanto quello che è detto, ma quello che non è detto: i silenzi, le elisioni, le omissioni”, proprio come piaceva tanto a Hemingway. Proprio quell’Hemingway che Brullo nel suo articolo ricorda irriso dallo stesso Carver, che però ne conosce a memoria l’intera opera, rivelando così apertamente, anche se in maniera indiretta, tutto il suo debito.

Infine, gli strali di Brullo si sono scagliati contro l’operazione Einaudi che, a partire dal primo volume a 17 euro, inizia a ripubblicare l’opera omnia di Carver: qui il “Brullo’s game”, cade. È noto infatti che moltissimi racconti di Raymond Carver furono corretti, rimaneggiati, interpolati dal suo amico editor Gordon Lish, che cambiò diversi finali. Einaudi recupera tutti gli originali, uncensored. Ciò pone, tra l'altro, un interessante problema critico – come mi spiega il mio caro amico: il mito di Carver minimalista si fonda infatti in parte su un lavoro non suo, appunto quello del suo editor. Dunque: qual è il vero Carver? Quello che Einaudi recupera adesso, e che il pubblico non conosce né ama (magari lo amerà, ma non lo ama perché gli è ignoto), o quello ibrido generato dalle forbici di Gordon Lish? Cioè l'autore si trova nel suo intendimento, o nella ricezione del pubblico, nella storia della tradizione e circolazione della sua opera?

Ecco perché vale la pena leggere e rileggere, magari confrontare. Anche se il traduttore è lo stesso dei Meridiani. E poi, se il libro costa troppo, si può prendere in prestito in biblioteca. Se no, Davide, ti presto il mio.

(Nella foto, Raymond Carver con la compagna Tess Gallagher)


lunedì 16 novembre 2009

Padre Pëtr Meščerinov

Conversazione con Padre Pëtr Meščerinov, del Monastero San Daniil di Mosca, in occasione del convegno internazionale "Cercatori dell'eterno, creatori di civiltà. Il monachesimo tra Oriente e Occidente", tenutosi dal 16 al 18 ottobre fra Seriate (Bg) e Milano, organizzato da Fondazione Russia Cristiana. E' vicedirettore del Centro per la formazione spirituale dell'infanzia e dell'adolescenza del Patriarcato di Mosca.
L'intervista è stata realizzata 'in absentia' grazie alla preziosa collaborazione con Monia Lippi, addetta stampa Russia Cristiana - che ringrazio.


Dietro quale spinta ideale e quale percorso storico è nato il monachesimo in oriente?
Secondo la mia personale opinione il monachesimo è nato come reazione alla statalizzazione della Chiesa. Perché la Chiesa ad un certo punto della sua storia ha cominciato a perdere il suo cuore, il suo nucleo escatologico, si è inserita in “questo mondo” e ha incominciato a svolgere sempre più un ruolo politico, e quindi è passato in secondo piano il suo contenuto escatologico e il suo non essere di “questo mondo”. Proprio da questo impulso è nato il monachesimo: perché la Chiesa potesse ritornare alla sua dimensione escatologica.

Come il monachesimo ha attraversato ed è sopravvissuto al '900: al comunismo prima, alla globalizzazione poi?
Il monachesimo nel XX secolo è sopravvissuto grazie alle comunità monastiche clandestine, perché in epoca sovietica quasi tutti i monasteri in Russia furono chiusi o distrutti. Solo nei monasteri situati vicino ai confini dell’ex-impero russo, quindi in una posizione geografica marginale, come per esempio la Lavra delle Grotte di Kiev, la Lavra di Počaev (Ucraina orientale ndr) e la Lavra delle Grotte di Pskov (Russia nord-occidentale ndr), la vita monastica ha potuto avere una certa continuità. Nel periodo sovietico c’erano pochissime parrocchie e per i credenti i monasteri erano l’unico luogo dove si conservava la tradizione liturgica, e anche la tradizione pastorale. Ma proprio in quel periodo molti fattori specifici della vita monastica sono andati perduti e per questo la tradizione monastica è stata seriamente compromessa. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica sono stati aperti molti monasteri, a cui sono affluite tante persone che però non erano pronte a questa vocazione. Attualmente nei monasteri si cerca di ricostruire la vita monastica così come è descritta nei libri, ma si vedono tutti gli effetti negativi dovuti alla lunghissima interruzione della tradizione monastica stessa.
Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, teniamo aperta la questione se sia possibile o meno resistere alla globalizzazione: si tratta di una problematica da studiare bene e a fondo, dal punto di vista teologico ed ecclesiologico. Ma al momento non abbiamo risorse adeguate per affrontare uno studio di questo tipo. Perciò, nella maggior parte dei casi la resistenza alla globalizzazione si trasforma in azioni del tutto inadeguate, talvolta maniacali, per proteggersi dall’aggressione del mondo.

Quali sono i centri più vivaci del monachesimo contemporaneo sui quali è possibile reperire informazioni?
Se come centri monastici vivi intendiamo quelli nei quali i monaci sono molto numerosi, sicuramente ce ne sono. La Lavra della Trinità di San Sergio [vicino a Mosca, è il centro spirituale più importante di tutta la Russia ndr], la Lavra delle Grotte di Pskov, la Lavra di Počaev, e molti altri monasteri dove c’è un numero notevole di monaci. Per quanto riguarda però la qualità della vita monastica, a mio avviso il livello è piuttosto basso, proprio in forza di quanto abbiamo detto prima. E questa condizione investe in senso generale anche tutta la Chiesa e la società.

Qual è l'effettiva entità, oggi, del monachesimo?
Non ho in mano le statistiche per parlare di numeri esatti, ma comunque in ogni diocesi russa c’è per lo meno un monastero, e anche il numero dei monaci, nonostante non possa citare dati precisi, è elevato. Le monache sono più numerose dei monaci. Il monachesimo ricopre un ruolo alquanto marginale nella vita sociale, politica e religiosa, e in alcuni casi questo ruolo diventa addirittura negativo: ciò avviene quando i monaci cominciano ad opporsi alla globalizzazione non in modo ponderato, ecclesiale ed evangelico, ma in forme asociali, il che, naturalmente, si riflette negativamente sulla società. Più volte nella storia il monachesimo ha dato impulso a un rinnovamento e a un approfondimento della vita religiosa: ad esempio al tempo dell’iconoclastia, che fu sconfitta proprio grazie alle comunità monastiche. Al momento attuale questo però non è possibile perché i singoli monaci e le comunità monastiche devono recuperare un contenuto religioso, evangelico ed ecclesiale profondo. In questo momento il nostro monachesimo ha bisogno di studiare, di imparare l’essenziale. Per quanto riguarda le vocazioni, occorre fare una premessa. Il monachesimo russo segue un’unica regola, non esiste, come in Occidente, una suddivisione in ordini monastici diversi nei quali ogni persona può trovare la sua vocazione specifica e scopre la propria chiamata. Questa situazione non facilita le vocazioni, perché ogni persona è diversa dall’altra ed è molto difficile unificarle tutte sotto un unico statuto.

Come vive oggi un monaco la sua vocazione? Esiste una vocazione 'di clausura' o si è proiettati 'nel mondo'?
Come vive oggi un monaco la propria vocazione dipende da tanti fattori: se, ad esempio, vive in un monastero di città o di campagna. I monasteri di città continuano ad avere anche la funzione di parrocchia e quindi vi si svolge attività pastorale e liturgica. I monasteri femminili hanno la stessa valenza senza la funzione “di parrocchia”, le monache svolgono lavori manuali, soprattutto lavori di ricamo e di cucito. Ci sono poi degli impegni sociali specifici per ogni monastero, per esempio noi al Monastero di San Daniil a Mosca in particolare lavoriamo con i giovani. Nei monasteri di campagna si vive invece secondo i ritmi della vita agricola e del lavoro dei campi. I tempi dipendono dall’organizzazione liturgica. Comunque, per fare un esempio, di solito dalle 6 alle 9 del mattino c’è la liturgia, poi il lavoro, il pranzo, e la liturgia serale. I superiori e i novizi non hanno sempre gli stessi ritmi. I momenti di vita in comune sono quelli legati alla liturgia e ai pasti in refettorio. La vocazione della clausura attualmente non è presente nel nostro monachesimo, perché per vivere una vocazione di clausura bisogna andare alla scuola del vero monachesimo e ci vuole una tradizione che possa servire da terreno di coltura di questa particolare chiamata. La vocazione alla clausura è come la vita dei fiori rari, di serra, che se si trovano su terreno aperto, esposti a tutti i venti, non possono crescere. La vocazione alla clausura non può nascere come scelta individuale, ma ha bisogno di un terreno monastico che la alimenti in modo speciale e attualmente questa particolare condizione non c’è.

Quali sono le prospettive per la sopravvivenza del monachesimo nel XXI secolo: un messaggio, una proposta di vita ancora attuale?
Per ora la tendenza del nostro monachesimo è principalmente quella di ritornare al passato e sta cercando con tutte le forze di restaurare e di ricostruire tutte le forme della vita monastica. Penso che, per avere una prospettiva vitale, il monachesimo debba avere il coraggio di guardare anche al futuro conservando al tempo stesso con devozione le sue grandi tradizioni. In ogni epoca il monachesimo deve manifestare la propria essenza che è quella del massimalismo evangelico, anche se le forme in cui questo massimalismo si manifesta possono essere diverse. Quando la forma monastica è fine a se stessa e si presenta come più importante del Vangelo, allora il monachesimo perde la sua forza, diventa come un pezzo da museo. Qui possiamo tornare al tema detto in precedenza circa la clausura. Il monachesimo e la vita della Chiesa in generale sono collegati tra loro, per cui il problema non è soltanto del monachesimo, ma di tutta la Chiesa. Se la Chiesa russa troverà in sé le forze per guardare avanti con spirito ecclesiale ed evangelico, allora ci sarà una rinascita sia della vita ecclesiale che della vita monastica. Noi ora siamo come al crocevia e non abbiamo ancora scelto quale strada prendere. Speriamo nel futuro.

(Nella foto in alto: Padre Pëtr Meščerinov; nella foto in basso: Padre Pëtr Meščerinov con la poetessa Ol'ga Sedakova durante il convegno).

mercoledì 14 ottobre 2009

Marcus Messner

Marcus Messner è un ragazzo americano di origini ebraiche nato nel 1932 che ha partecipato alla guerra di Corea nel 1952. La sua storia ci viene raccontata da Philip Roth nel suo ultimo lavoro, 'Indignazione', appena uscito in Italia. Marcus è un esemplare raro di virtù e abnegazione, che ha capito che "nella vita va fatto ciò che si deve fare" pulendo le interiora dei polli nella macelleria kosher di suo padre a Newark. Dopo quelle che noi chiameremmo scuole superiori, si iscrive al Robert Treat, un collegio vicino a casa, dove studia con il massimo profitto, continuando ad impegnarsi, come sempre, per giustificare il grande sforzo, anche economico, che i suoi genitori fanno per mantenerlo.

La crescente ansia del padre, che ha un'immotivata paura di perdere il figlio - magari proprio in guerra, in Corea, dove due cugini di Marcus aveva già rimesso l'anima a Dio; oppure a causa di 'cattive compagnie', di guai non ben precisati in cui si sarebbe potuto cacciare (in fondo, è un adolescente sottoposto a tante tentazioni) - rende la vita di Marcus insopportabile. Dopo l'ennesimo confronto con il padre, il ragazzo lascia il Robert Treat e si iscrive a Winesburg, nell'Ohio, a ottocento chilometri da casa.

La serie di eventi, del tutto fortuiti, che seguono a questa decisione, porterà la vita di Marcus su crinali del tutto inattesi. Il libro si chiude a pagina 136 con uno straordinario, asciutto, inerosabile epilogo: "Sì, il buon vecchio e spavaldo "Vaffanculo" americano, e questo è quanto per il figlio del macellaio, morto tre mesi prima del suo ventesimo compleanno: Marcus Messner, 1932-1952, l'unico dei suoi compagni di corso tanto sfortunato da restare ucciso nella Guerra di Corea, terminata con la firma di un armistizio il 27 luglio 1953, undici mesi prima di quando Marcus, se fosse stato in grado di mandar giù le funzioni in cappella e di tenere la bocca chiusa, si sarebbe laureato al Winesburg College - più che probabilmente come migliore del suo corso - rimandando così il momento di imparare ciò che il suo incolto padre aveva tanto cercato di insegnargli: il terribile, incomprensibile modo in cui le scelte più accidentali, più banali, addirittura più comiche, producono gli esiti più sproporzionati".

Marcus Messner è solo l'ultimo di una galleria di personaggi che Roth ha magistralmente (un avverbio non casuale, per la voce più grande, oggi, della letteratura americana, Premio Pulitzer nel 1997 per "Pastorale americana") ritratto nel corso della sua lunga e prolifica carriera di scrittore. Ancora una volta un ebreo, ancora una volta Newark come sfondo, crogiuolo di un mondo antico, sempre più distante, ma vivido, lucido e ben presente nella mente dell'autore, che vi ha ambientato molte delle sue storie. La stessa Newark è anche il luogo dove Roth, che è ebreo, ha trascorso la sua infanzia: è facile allora pensare che, nei suoi personaggi - a partire dall'alter ego Zuckermann fino all'ultimo Marcus Messner, lo scrittore abbia riversato se stesso, la sua storia.

Nel libro "Patrimonio" (uscito nel 1991, ma tradotto in Italia solo nel 2007), Philip Roth ha narrato in prima persona le vicende che ruotano attorno alla morte del padre, scomparso nel 1988 per un male incurabile. Ne descrive il lento disfacimento fisico, che lo porta alla consumazione, alla morte. C'è da riflettere: perchè raccontare così apertamente di sè, dei propri cari? Cosa spinge uno scrittore, dopo aver passato più o meno tutta la sua vita a scrivere di sè camuffandosi dietro migliaia di personaggi, a dire 'io' in prima persona? Che differenza c'è, poi, tra Roth che parla della morte del padre, e di un 'Tizio qualunque' che racconta la morte di suo padre? Al di là dell'indiscutibibile cifra stilistica, dell'altezza della prosa di Philip Roth, della sua capacità di scrivere, del suo essere uno scrittore, ciò che mi sembra evidente è che chi scrive parte sempre da se stesso. A volte nascondendosi, a volte - soprattutto raggiunta la maturità artistica - rivelandosi e agendo in prima persona. In pratica: facendosi i fatti suoi in pubblico.

La grandezza di uno scrittore, che è anche un 'autore', credo stia però in questo: trasformare il proprio vissuto - banale o eccezionale che sia - in qualcosa di esemplare, e quindi di universale. Roth non parla di suo padre e basta: sta parlando di tutti i padri, di tutti i genitori morti di cancro. Di tutti i figli alle prese con il dolore di una doppia assenza. Di un dolore unico per ciascuno e pertanto irripetibile; ma anche comune, anche se mai banale.

Un altro scrittore 'autore', che si è recentemente confermato fra i maggiori interpreti del nostro tempo, è Jonathan Franzen che nel 2006 ha pubblicato 'Zona disagio': romanzo per racconti in cui narra parte della propria vita, a partire dalla morte - anche qui - di sua madre. Franzen narra con dovizia di particolari l'ingresso nella casa di sua madre (si era accordato con il fratello per cernitare gli effetti personali e poi procedere alla vendita dell'immobile) e di come metodicamente tolga tutte le fotografie dagli scaffali, dai mobili di casa, eliminandone solo le cornici e mettendo le immagini della sua famiglia, dei suoi parenti, vivi e morti, assieme. Una presenza - le fotografie incorniciate - che avevano 'occupato', non solo idealmente, la sua infanzia. Da quella casa si dipana il filo della vita di Jonathan, fino allo straordinario racconto finale, dal titolo "Il mio problema ornitologico", dove Franzen srotola il filo della dolorosa, lenta, inevitabile separazione dalla moglie, utilizzando una particolare chiave di lettura: tenendo in primo piano la passione per il birdwatching (di cui lo stesso autore suggerisce una lettura simbolica) e facendo invece agire sullo sfondo i movimenti che condurranno alla definitiva rottura.

Un parallelo - difficile, forse improponibile - fra due scrittori così diversi è arduo. Prendendo però in esame questo specifico tema - il mettersi in prima persona, il farsi icone universali - da un lato Roth fa valere il peso della sua età (è nato nel 1933) e della sua esperienza di vita: a 76 anni, con di fronte un tratto di strada forse breve, lo scrittore non indugia in happy endings ne' tantomeno in finali aperti alla speranza (i suoi personaggi sono tutti potenzialmente autodistruttivi).
Franzen
, invece, (classe 1959) forte dei suoi cinquant'anni e del suo essere "americano", deve credere - per forza, per necessità, naturalmente - che una speranza ci sia, che la vita abbia un senso che può andare oltre la morte. Che lo possiamo cercare qui, nelle nostre storie, nelle vicende di dolore che ci accompagneranno fino al grande salto. Cesare Pavese in una lettera a Giulio Einaudi del 14 aprile 1942 scrisse: “C’è una vita da vivere, ci sono biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere.” Ecco. E poco importa, se otto anni dopo, nell'agosto del 1950, avrebbe posto fine alla sua vita con una dose eccessiva di sonniferi.

mercoledì 7 ottobre 2009

Willard Grant Conspiracy

"Quando abbiamo lasciato la California la cenere sollevata dal fuoco e trasportata dal vento ricadeva su Lancaster come pioggia grigia. Il cielo era scuro, la terra rossa di fiamme alte 400 piedi". Succedeva ai primi di settembre 2009, quando Robert Fisher lasciava gli Usa per la tourneè europea dei Willard Grant Conspiracy, il progetto musicale nato nel 1995 dallo stesso Fisher e da Paul Austin che lo scorso 6 ottobre ha portato Fisher (assieme al violinista David Michael Curry e agli scozzesi Doghouse Roses: il chitarrista Paul e la vocalist Iona; e a Cesare Basile) al Centr'arti di Galazzano di San Marino, una data-off dell'official tour che sta toccando l'Italia. Non avevo mai sentito niente dei WGC ma sono andato 'sulla fiducia'', attirato dal nome stesso della band e dalla curiosità di scoprire un nuovo 'pezzettino' d'America.

"Lui è il cantante" - mi hanno detto appena dentro . E mi indicano un uomo enorme ma bello, con il viso pulito, gli occhiali tipo impiegato anni '80 con montatura nera, capelli corti forse chiari, che sta vendendo dei cd ad un banchetto di fortuna. Mi avvicino e glielo dico subito: "I haven't heard anything from you" che nel mio inglese maccheronico vorrebbe significare che non li conosco per niente.

"Grazie per essere venuto allora" mi dice e si presenta "I'm Robert". "I'm R.". "Please to meet you". E fino qui, è l'abc. Poi mi spingo un po' oltre e cerco di sembrare intelligente facendogli qualche domanda. "Mi consigli un album? Qual è il tuo preferito"? "Non ne ho - mi dice - sarebbe come chiedere ad un genitore qual è il suo figlio migliore". E mi spiega che i primi quattro album sono fuori catalogo perchè esauriti e non ristampabili; l'ultimo è "Paper Covers Stone", che eseguiranno durante la serata del Centr'arti. Quello precedente mi attira: è "Pilgrims Road", un bel packaging con scritta vergata con font Vespasianum, a richiamare l'antichità, i viaggi a piedi dei pellegrini che percorrevano le strade - che aprivano strade - attraverso l'Europa.

Gli mostro il biglietto da visita con il nostro pellegrino e sorride quando gli spiego che forse acquisterò "Pilgrim Road": "per un discorso di affinità", soggiunge Robert.
Robert è gentile, ha la pelle chiara; è pieno di efelidi sulle grandi braccia; è un uomo grande e grosso ma con modi e movenze eleganti: sul palco tirerà fuori una voce profonda, vibrante, chiara, che sa di America, di frontiera, di storie che parlano di amore, di morte, di ricerca di senso, di perdono, del desiderio metaforico di 'tornare a casa', di Dio.

Altre domande, altre risposte. "Vengo da Lancaster, in California, appena fuori Los Angeles. Vivo nel deserto. E' un posto solitario. Non ho figli, perchè sono un egoista. Sono stato per venti anni a Boston, in effetti i WGC sono quasi tutti di Boston. Nel comporre musica non mi ispiro alla letteratura. Fra i miei autori preferiti c'è John Fante". Parla un inglese semplice e mi chiedo se lo stia facendo per me. Poi gli dico che sono stato a New York e a Cape Cod, ma che penso di aver visto qualcosa che non ha niente a che fare con l'America - non fosse altro perchè Manhatthan è uno sputo sulla cartina degli Usa. "In effetti hai ragione - mi dice. Però New York è un cuore importante degli Usa - aggiunge. Ma ciò che hai detto è vero".

E come è vivere in California? "Se non la conosci ti potresti annoiare. Io so dove andare, dove succede qualcosa. Ma un turista che arriva a L.A. o a Lancaster non vede niente". Una ragazza gli dice che vorrebbe tanto andare in California ma che non trova nessuno con cui andare. E lui, fra il profetico ed il messianico, icastico dice: "Se sei veramente disponibile a partire, troverai qualcuno che è pronto a partire con te".

Dopo 35 minuti di musica di Cesare Basile, che li sta accompagnando nel tour, ecco i WGC al lavoro: salgono sul palco in quattro (poi si aggiungerà anche Basile con chitarra, mandolino, armonica a bocca). Subito Fisher con un humour più inglese che americano dice: "Iniziamo subito perchè domani dovete alzarvi presto per andare a scuola". E giù con "Drunkard's prayer" che interrompe dopo neanche un minuto, per far notare al fonico il pessimo ritorno audio, o che so io. Riparte e fino a mezzanotte l'America ha trovato una voce con cui esprimere la sua storia, le sue emozioni, le sue contraddizioni. Robert Fisher è un grande performer e i musicisti sono affiatati (WGC è un progetto 'open source' per così dire: sono infatti una ventina gli artisti che si muovono attorno a Robert Fisher, unico membro fisso della band).

Alla fine del concerto - i brani eseguiti sono stati tratti quasi tutti da "Paper Covers Stone" - dopo un piccolo bis e un grande ringraziamento al "lovely" pubblico (centocinquanta) - corro a comperare il cd. Orgoglioso glielo mostro: "Good choice", sorride. Gli stringo la mano, lo ringrazio. "Ti scriverò, magari per un'intervista". "Perchè no", dice mentre ripone la chitarra nel fodero. Poi me ne vado, con il desiderio irrefrenabile di partire per gli Usa, di viaggiare, di conoscere il mondo cantato da Robert, che mi ricorda la ruvidità di Faulkner, la dolcezza di Carver, la ricerca di senso e di un proprio posto nel mondo, cara ai poeti e agli scrittori della Beat Generation.

"Vicino a dove vivo io c'è Santa Barbara - aveva detto - e anche Big Sur, un grande centro di poesia e di letteratura" (e ci ha insegnato anche Allen Ginsberg.) Ma il nome? Da dove viene "Willard Grant Conspiracy"? "Questo è un segreto". Sepolto dentro un uomo che è un gigante, dentro una voce e un sound che sanno d'America.



martedì 6 ottobre 2009

Soft hand



Flowers on the table

Have all gone south
Clutter that surrounds us
Leaves me with a dry mouth

All I need is a soft hand
To ease me in
All I need is a soft hand
To ease me in

All I need is a soft hand
To ease me in
The only thing we have left
Is skin against skin

There I made you smile
There I made you smile
There I made you smile
Made you smile again

Cut the service on the phone
Don't want anyone to know we're alone
It's so perfect here in bed
Just let the sunshine ease us in

There I made you smile
There I made you smile
There I made you smile
Made you smile again

All I need is a soft hand
All I need is a soft hand
All I need is a soft hand

To ease me in
Ease me in
Ease me in
Ease me in
Ease me in
Ease me in

Soft hand : Regard the end
Robert Fisher : Willard Grant Conspiracy

domenica 13 settembre 2009

Immagini da Savignano

Undici, dodici, tredici settembre duemilanove. Diciottesima edizione del SI Fest a Savignano sul Rubicone, una bella iniziativa ancora di nicchia, per fortuna, dedicata alla fotografia. Belle mostre, bravi artisti, qualche bel locale. Durante l'estate abbiamo assistito al concerto dei Marlene Kuntz, nella piazza maggiore. interessante ma non il mio genere. Bella voce Godano, ma troppo 'star' per i miei gusti e canzoni troppo uguali. A me, piace minimal. Ma Savignano è anche luogo di devozione, grazie alla chiesa che svetta lassù, sopra la collina, al temine del lungo viale alberato che da piazza Amati sale verso il cielo. Savignano è una città famosa per il suo centro commerciale. Per il cinema. Il centro storico, seppur carino, è spoglio, un po' scialbo con locali non all'altezza. Ed è straordinario, per contraltare, la particolarità di questo SI Fest, che miracolosamente, nonostante le difficoltà di bilancio, è riuscito a produrre un'altra bella edizione. Un fiore nel deserto. Un avvenimento culturale con 'coda' che si prolunga ancora per alcune settimane a Villa Torlonia (San Mauro Pascoli). A Savigano grandi - o quasi grandi - fotografi si prestano a dare un'occhiata ed un parere - a pagamento - alle centinaia di fotografi in erba o aspiranti tali, che portano il proprio portfolio. Chi con timidezza, chi con tracotanza. Il panorama è vario, e sta bene così. Mostre duemilanove: bella "Luxury" di Martin Parr, una tranche de vie del bel mondo che frequenta le corse dei cavalli, da Melbourne a Abu Dabhi ad Ascot. Bellissima "Lost in transition" di Peter Bialobrzeski, dedicata alle città-monstrum che crescono schiacciando tutto ciò che c'era prima, accanto alle Slumville, alle Bidoneville, accanto alla povertà. L'oro, la tecnologia, l'architettura d'avanguardia: uno schiaffo alla povertà. Interattivo il censimento per immagini che prosegue per il terzo anno con Volti e indizi: autoscatti per raccontarsi.

Concerto clou di sabato 12 settembre alle 21.00 in piazza Amati è stato quello di Dany Greggio & The Gentlemen, in formazione rockabilly. Con Greggio alla voce e chitarra e Andrea Atto Alessi al contrabbasso, c'era anche Diego Sapignoli alle percussioni, già visto nella sfortunata serata - per l'ignoranza del pubblico, la stupidità dell'estate romagnola, la superficialità dell'organizzazione - del Beky Bay di Igea Marina. Invece a Savignano, pubblico attento e partecipe, con i Motus al gran completo in prima fila, assieme a Silvia Calderoni, nuova musa e protagonista dei recenti ICS (X) e di Antigone (meravigliosa Antigone).

In grande spolvero, Dany Greggio ha cantato brani tratti dal suo omonimo album d'esordio - Ode Marittina, Serenata a Seconda, Circumgasse - regalando "Di sabato il sole" (cover tradotta di "Saturday sun" di Leonard Cohen) prima di chiudere con Sisifo, sfumata sulle note di "Tutti quanti voglion fare jazz" (Everybody wants to be a cat), direttamente dagli Aristogatti di Walt Disney. Pertinente, divertente. Con Dany, anche i cartoon salgono di tono.
































giovedì 27 agosto 2009

E il naufragar m'è dolce a Miramare

Dal 2001 sono a Rimini, e non ho mai scritto del suo mare. Chi ci vive lo sa, il perchè. Perché il mare a Rimini non è mare. Alghe, rifiuti, acque torbide, scarichi fognari, colibatteri fecali come se piovessero. E delle cose brutte si parla a denti stretti e malvolentieri, ci si pensa su, si soffre in silenzio. E' come un caro amico che ti tradisce, come qualcosa di bello che è stato terribilmente sfigurato e mai sarà più come prima. Le mucillagini a Rimini hanno fatto il loro tempo, ma fare il bagno è un'esperienza penosa, per chi ama il mare, la bracciata ampia, l'immersione. Ciò è stato vero per me fino a quest'estate, quando quasi per caso abbiamo scoperto la spiaggia libera davanti alla Colonia Marina Bolognese - maestosamente abbandonata, ma non in rovina.

Spiaggia libera a Rimini significa skyline non antropizzato. Significa salviettoni multicolori appoggiati sulla sabbia, su brandine pieghevoli portate da casa; spiaggia libera è ombrellone fai da te, è il pranzo al sacco, è l'asimmetria dell'occupazione del suolo. Ma a Miramare c'è dell'altro. La spiaggia libera davanti alla Colonia è silenziosa, tranquilla, spaziosa. Lì l'eco della Publiphono non arriva. Lì gli extracomunitari non si avventurano quasi mai, perchè non ci sono abbastanza potenziali clienti. Questo lembo di spiaggia gode di uno status da apolide: zona di confine tra Rimini e Riccione, ancora non investita da piani regolatori, da progetti di riqualificazione; dimenticata dalla pubblica amministrazione. Un paradiso naturale, e pulito. C'è il bagnino, uno solo, che osserva il mare e chiacchiera. Ogni tanto esce in mare. Ci sono le famiglie. Ci sono gli amici, gli amanti, i gay, qualche turista che ha perso la strada di Marina Centro o di Riccione. Tutti in pacifica convivenza, a sentire il sole sulla pelle, a leggere nel silenzio, a giocare. Un luogo così grande che tutti godono di un'ampio spazio vitale: si può stare stretti stretti, ci si può isolare. Si può scegliere. Una doccia ed una fontana, all'imboccatura di un viale che conduce alla strada litoranea; un paio di bar a distanza di sicurezza - che prima di andare a prendere un caffè o un ghiacciolo ci pensi non due, ma tre volte; la postazione del bagnino, al centro esatto della spiaggia.

E poi c'è il mare. Trasparente, pulito, in alcuni punti pieno di pesci (verso l'imboccatura del Marano, soprattutto). E allora entri in acqua e fai pace con le onde, con il cielo, con la schiuma che lambisce la spiaggia. Poi ti butti e nuoti, nuoti senza timore di andare a sbattere contro un turista, contro un palo, contro un moscone, contro un bambino che gioca, contro un pedalò. Nuoti e l'acqua continua ad essere pulita, e ti chiedi se sei ancora a Rimini. E non ci credi. E pensi che sei fortunato a stare lì. E anche la mia compagna, che ho visto si e no fare il bagno in mare solo a Positano, Ischia, Mauritius e basta, timidamente e poi senza paura si immerge a fare il bagno.

Continua ad esserci silenzio, tutto intorno. La giornata si muove e il sole passa sopra la tua testa e scende lentamente dietro la Colonia Marina Bolognese. Non so niente di lei, ma è bellissima. Imponente, chiusa da un muretto e recintata. Le finestre sono cadute in pezzi, le tapparelle andate in rovina, abbandonate su se stesse. Ma i mattoni sono rossi, la geometria delle architetture ancora solenne e integra. Ho immaginato un bel recupero, poi ho pensato: No, no, che cavolo! Deve restare così. Via il cemento, via i centri commerciali, via gli appartamenti. Via l'antropizzazione, che non ha più niente a che fare con la sua etimologia greca - con l'uomo.

Tutto intorno alla Colonia - che consta di sette diversi edifici collegati da corridoi con arcate attraverso le quali si intravede il cielo blu, ed il contrasto è sorprendente - ci sono terreni incolti. Ma il prossimo ripristino della Colonia Marina Novarese non lascia presagire niente di buono. Ci faranno un cinque stelle, collegato con il talassoterapico lì di fronte. E allora, arriveranno gli ombrelloni, arriveranno i turisti, arriveranno gli stabilimenti balneari, i ristoranti e i bar. Arriverà il turismo di massa, e magari impianteranno anche i pali con gli altoparlanti della Publiphono. E questo relitto che è la Bolognese diventerà albergo o shopping centre o centro multifunzionale. Mi raccomando Rimini: mai un museo, mai una galleria di arte contemporanea, mai un centro culturale. Dove ci sono campi incolti, Rimini, non fare giardini o parchi attrezzati. Non fare oasi ecologiche. Rimini, non fare ciò che non sai e non vuoi fare: ma butta cemento e copri tutto. Costruisci, edifica, riempi, riempi gli spazi vuoti, riempiti le tasche.

Noi quest'estate, comunque vada, abbiamo fatto pace con il mare, e anche con Rimini. Che mi sono quasi innamorato di lei. Ci andiamo più che possiamo, senza fretta, senza stress, sperando che l'estate non finisca mai, opponendo un fiero "cazzeggio" al mondo del lavoro e delle relazioni obbligate che premono per entrare nel nostro spazio vitale, così delicato, ancora così fragile. Noi continuiamo a caricare l'auto e ci dirigiamo verso Miramare. Troviamo anche parcheggio facilmente, gratis, sulla via Teramo. Poi attraversiamo la strada e tutto scompare, ogni cosa torna a dimensione d'uomo. Ci immergiamo nel sole, nella natura, e il mare ci sta davanti, e la Bolognese ci nasconde dal caos là fuori. Tutto diventa lento e bellissimo. Che non sembra neanche di stare a Rimini.

martedì 25 agosto 2009

Marrakech #1

Più che una vacanza, un'esperienza di vita. Un viaggio, vissuto finalmente da viaggiatori e non da turisti. Tutto ciò che è Europa non esiste a Marrakech, siamo in un altro mondo. Si parla arabo e francese. Noi solo italiano e inglese. Al limite della incomunicabilità. La nostra cultura, la nostra educazione, la nostra testa: niente di questo era necessario, a Marrakech. Per sopravvivere, orientarci, capire, entrare dentro questo popolo, abbiamo dovuto usare il cuore, l'emozione, l'irrazionale, l'improvvisazione, l'astuzia, modi nuovi di essere. Abbiamo dovuto sollecitare 'muscoli' che non eravamo più abituati ad usare. Ma che piano piano si sono risvegliati.

Siamo arrivati che picchiava il sole, a 50 gradi, e faceva caldo anche per loro. Con un taxi-van siamo arrivati sino alle mura esterne della Medina, il centro storico di Marrakech. Lì un uomo ha caricato le valigie su un carretto e ci ha scortati sino al riad dove avremmo soggiornato, il Dar Attajmil, che nella loro lingua significa: "qualcosa di meraviglioso". Le mura delle abitazioni della Medina sono tutte rosate, uguali, irregolari. Le strade sinuose, storte, sghembe, polverose. E' stato facile accorgersi della povertà, della sporcizia. E' stato bello poter incontrare la bellezza.

Come nella Medersa Ben Youssef (foto qui accanto), un'antica scuola coranica, dove i ricchi avevano le stanze con la vista sul patio. I meno abbienti, invece, se ne stavano in stanze con un buco per la luce e per l'aria. Una persona, un arabo un po' malmesso in uno stentato inglese, ci ha chiesto se volevamo ci facesse da guida, e ci ha detto che lui trent'anni prima, aveva studiato lì. "No, merci". No, grazie. Abbiamo fatto da soli. Perchè a Marrakech tutti ti offrono qualcosa, e la tua gentilezza, il tuo 'urbanesimo' europeo, capisci presto che è fuori luogo, altrimenti dopo una sola giornata potresti ritrovarti senza un Dirham in tasca. Tutti ti chiedono se hai bisogno di qualcosa, tutti vogliono venderti qualcosa, tutti ti vogliono portare da qualche parte. E tu, gentilmente, ascolti tutti, per non offendere nessuno. Ma dopo poche ore hai già capito, che qui, non devi ascoltare nessuno. Guardare avanti senza incrociare lo sguardo di nessuno, perchè la domanda, la richiesta, l'offerta è sempre in agguato. Sei europeo, ce l'hai scritto in faccia e nei vestiti. Poi, dopo qualche giorno, il caldo ed il sole, ti hanno trasformato la pelle in un abitante del nord Africa. Ma non basta per mimetizzarti.

Raccontare Marrakech dopo averla vista e vissuta, anche solo per pochi giorni, è impossibile. Restano tante suggestioni, tante immagini. Se devo sceglierne due per rappresentare le contraddizioni di un mondo che divide nettamente ciò che è fuori (strade, piazze, lavoro, mercati) da ciò che è dentro (riad, hammam, burqua - per altro molto pochi), non ho dubbi. La prima è l'istantanea di un bimbo di due/tre anni che, vestito solo del suo pannolone, se ne stava lungo una strada polverosa con in mano un pezzo di vetro molto grande, raccolto da una specie di bidone dell'immondizia. Noi stavamo seguendo una 'guida' che non sapevamo dove ci stesse portando. All'improvviso è apparso il bambino e poco dopo il vetro gli è caduto di mano, terminando la sua corsa a pochi centimetri dai suoi piedi. La nostra guida gli ha detto qualcosa, ma non ha raccolto il vetro. Poi una donna si è affacciata da dietro una grata di una finestra posta molto in alto. Il bambino era sporco, era solo, aveva in mano un vetro rotto. E ho capito che in Africa, gli angeli custodi devono lavorare molto di più che da noi, in Europa.

L'altra immagine è abbinata al canto del muezzin. Verso la metà del pomeriggio ci siamo trovati nel Palazzo di Bahia (a destra, foto di interno), antica dimora dei principi e dei re del Marocco. La bellezza del palazzo è straordinaria e nonostante il tentativo di curare questo stroardinario sito storico-artistico, non sfuggono i mosaici divorati dal tempo e dai turisti che se li portano via come souvenir. Alcune zone del palazzo sono transennate - si fa per dire - e non accessibili. Il legno intarsiato è in alcuni punti talmente consunto da sembrare lì da millenni. Poi, nel caldo atroce di quel pomeriggio, con il sole a picco sulla testa, mentre attraverso un patio enorme e deserto, con una fontana senz'acqua in mezzo, inizia il canto del muezzin. E ho intuito cosa è Islam. La sua potenza. Una forza, quel canto, che mi ha fatto rabbrividire. Il mormorio del muezzin, cinque volte al giorno, ricorda a tutto il mondo arabo, che "Allah è grande, Allah è grande". Mi manca, quel canto, qui, in Italia. Dove le campane delle chiese al massimo suonano per dirci che ore sono. O dove le bandiere - che in Marocco, ma anche in Danimarca, negli Usa, persino in Grecia - sventolano solo negli stadi.

Ci sono ancora tante suggestioni, di cui vorrò scrivere: i suq, la gente, il cibo, le scoperte e gli smarrimenti, la contrattazione, la gentilezza di alcuni arabi, il bagno turco, l'hammam, la pace, i colori, il deserto. Ma il sapore più pregnante che mi sono portato a casa è stato quello del tè alla menta. In pratica, come le chewing-gum Brooklyn alla clorofilla. Servito bollente, con le foglioline di menta in infusione, questa bevanda ha accompagnato tutta la nostra vacanza. E' stato il primo e l'ultimo gesto del nostro viaggio. All'inizio è stato il ragazzo del riad Dar Attajmil ad offrircelo. Stanchi del viaggio, impolverati, accaldati, affamati, sudati, ci ha fatto accomodare in una stanza che dava sul patio. Abbiamo atteso trenta minuti. Poi è arrivato il tè. E la nostra 'fretta' europea era già scomparsa. Il ritmo, rallentato. Abbiamo iniziato a sfogliare cataloghi, libri, a sentire che c'era una musica che proveniva da una radio. Poi abbiamo notato gli arazzi, i tappeti, il tavolino, ammirato i cuscini. Visto il gigantesco banano che si trova proprio nel centro del patio. E sopra il banano il cielo. Il nostro tè alla menta, il primo, è stato meraviglioso. La sera, era l'ultima sera, ce lo siamo fatti portare e l'abbiamo bevuto piano. Anche a casa ce lo stiamo facendo, ogni tanto. Ma, come si dice, ed è proprio così: non è la stessa cosa. Ah, Marrakech!

lunedì 13 luglio 2009

Virginio Cupioli e l'albero della memoria

Rivive la Rimini degli anni ’30 grazie al volume L’albero della scala, recentemente dato alle stampe da Virginio Cupioli, riminese nato nel 1926: una vita da ferroviere in giro per l’Italia; una passione per le lettere, la fotografia, la cultura portata avanti da autodidatta e con caparbietà. E una memoria prodigiosa, che lo ha reso testimone unico di una Rimini scomparsa e della sua ‘povera’ gente, che si ritrova integra, vera, nelle pagine del suo libro.

Via Fogazzaro, Rimini, anni ’30: la ‘via degli ortolani’, per i bambini nati su quella strada, rappresenta tutto il mondo. Un mondo di giochi fra amici, di avventure e di imprese: un universo di volti e di storie che si fissano per sempre nella memoria del piccolo Virginio che, sino al 1938, vivrà in quei campi un’infanzia spensierata, magica, serena. Che oggi torna lucidamente nelle pagine del libro che, ottant’anni dopo, ha scritto e stampato in proprio, come regalo ai nipoti, alle generazioni future, in ricordo di un’epoca che non c’è più.
La sua famiglia era composta dal babbo, garzone per contadini prima e muratore poi; dalla mamma casalinga; dai quattro fratelli: Virginio ha un’intelligenza vivace e acuta che gli consente di seguire gli studi sino alla terza avviamento industriale; quindi, grazie ad un corso di telegrafista, il primo marzo del 1943 entra come telegrafista nelle Ferrovie dello Stato. Da qui parte la sua carriera nelle ferrovie come Capo Stazione Superiore Dirigente di Circolazione. Un lavoro che lo porterà in Sicilia, Calabria, Alto Adige, Toscana, e in quasi tutte le stazioni dell’Emilia e la Romagna.

Virginio Cupioli: come è arrivato alla scrittura alla soglia degli ottant’anni?
Veramente mi sono messo a scrivere perché mi è sempre piaciuto esprimermi, specialmente attraverso la scrittura. Anche quando lavoravo nelle ferrovie, i colleghi venivano da me quando c’era da comporre una lettera, perché io lo sapevo fare bene, secondo loro.

Un talento naturale, allora.
Fin da ragazzo mi piaceva conoscere. In casa parlavano solo in dialetto: quando ho iniziato ad andare a scuola facevo perciò fatica a capire le parole. A mio padre chiesi un vocabolario, ma non aveva i soldi per comprarmelo. In italiano però avevo sempre la sufficienza, anche se non lo parlavo bene. Non appena entrato in ferrovia, ho fatto dei corsi per corrispondenza in italiano e cultura. Poi, ovunque fossi in Italia, mi fermavo a vedere i monumenti, i musei, le biblioteche del luogo, perché mi piaceva. Sono sicuro che se fossi nato in un ambiente culturalmente ed economicamente diverso, avrei seguito scuole regolari.

Perché ha sentito l’esigenza di scrivere un libro?
Non ho realizzato il libro per essere uno scrittore, ma è stato un pensiero che ho avuto. Io sono sempre stato un osservatore, ascoltavo davvero la persona che avevo di fronte, cercavo di capire cosa mi stesse dicendo. Ho deciso invece di trasformare i miei ricordi di quegli anni in un libro perché avevo in testa tutto il mondo di allora, che oggi è scomparso. Ho pensato di scrivere per i miei nipoti un libro, perché lo potessero leggere e potessero apprendere cosa fosse la vita in quel periodo.

Da dove ha inizio il suo libro?
Nel libro racconto le storie nate attorno alla via Fogazzaro. Fino al 1938 abbiamo vissuto lì in quella che era nota come la “via degli ortolani”. Era tutto campo. In quei dodici anni ho vissuto un periodo meraviglioso. Poi nel 1938 mi sono trasferito in città, perché mio padre aveva aperto la trattoria “I topi grigi” in via Bufalini. Nel tempo, ho capito che mi ero sentito strappato da quel luogo magico. Nella nuova casa, ho iniziato a conoscere la città, ad osservarla con curiosità, a partire dai tipi umani che frequentavano la trattoria. Non tanto i borghesi: ma i derelitti, i senza casa che andavano a dormire nel dormitorio.

Qual è il cuore de L’Albero della Scala?
Nel libro c’è la lotta per la vita, per la sopravvivenza. E ho voluto raccontare la vita come un acquerello, com’era allora: non solo la mia, la nostra, della mia famiglia, ma di tutti. Perché tutte le vite erano uguali.

Le storie che lei racconta si fermano al 1940, quando aveva 14 anni, in piena seconda guerra mondiale.
Sì: ho ancora tanti episodi da raccontare del periodo dopo l’inizio della guerra, che testimoniano lo stato sociale, non tanto i bombardamenti. A Rimini c’è stata la guerra civile: quando è caduto il fascismo abbiamo avuto paura delle ritorsioni. C’erano vendette, sevizie e purtroppo anche impiccagioni. Una lotta dell’uomo contro l’uomo che è meglio che una società non la viva mai.

Che ricordi ha, fra i più vivi, di quel tempo?
L’inverno del 1944 1945: la fame. Il fronte era sul Senio e ho potuto vedere con questi occhi cosa in cosa può trasformarsi un popolo se ha fame. Ho visto donne andare con i militari stranieri per un pezzo di pane. Davanti alla stazione dei treni nel punto tappa alleato i camion andavano e venivano carichi di militari e ragazze. Un ricordo indelebile: la fame annulla tutte le dignità.

Nel libro (e a corredo di questo articolo) ci sono anche tante immagini che ha scattato personalmente: da dove nasce la sua passione per la fotografia?
Nel 1956 quando ho comperato una Vitomatic II Voigtlander colorskopar: era una macchina che costava più di un mese di paga. Un cliente della trattoria di mio padre, nel 1938, mi aveva donato una Agfa a soffietto, ma mi era stata rubata durante il passaggio del fronte. Ho sempre amato fotografare le persone, cercare in esse qualcosa di particolare. E mi piace tuttora.

Da dove nasce il titolo del suo libro L’albero della scala?
Quando eravamo bambini andavamo a giocare presso un fosso d’acqua con attorno degli alberi. Un albero nella crescita non era andato verso l’alto, ma obliquo. Era molto largo e tutti riuscivano a salirci, anche le bambine. Era il nostro luogo di gioco preferito, ma era anche pericoloso perché sotto scorreva l’acqua.

Nel libro, oltre ai racconti, c’è anche molto dialetto.
Il dialetto è il mio pane, fin da bambino: mi riporta alle mie origini. In casa mia ho sempre parlato dialetto e mangiato piada, dalla mattina alla sera. Ecco perché ho scritto in dialetto e mi piacciono le espressioni dialettali. Sono molto più colorite ed espressive dell’italiano. Mia zia diceva: “Um toca mandè zo una pigra”, cioè: “Mi tocca mangiare una pecora”. Era quando doveva fare buon viso a cattivo gioco. Perché usava questa espressione campagnola? Perché nelle campagne tutte le famiglie avevano una pecora per fare il formaggio e il latte. Questa pecora, una volta vecchia, veniva ammazzata per essere mangiata, ma la carne era dura dura. A mandarla giù si faceva molta fatica, soprattutto per chi non aveva più denti!

Una bellissima ‘canzone’ dialettale che ha composto e messo a suggello della sua opera, riguarda l’amore fra Ugo d’Este e Laura Malatesti detta la Parisina.
Quando nel 1948 ho fatto il militare a Ferrara nella locale stazione radio, passavo le ore libere dentro il castello estense. Il custode ci ha portato a vedere le prigioni di Ugo e Parisina, raccontandoci la loro storia. In seguito ho approfondito la loro vicenda studiando dizionari, enciclopedie. La loro storia mi ha sempre commosso molto di più che quella dantesca di Paolo e Francesca. Paolo e Francesca erano adulti, sposati. Ugo e Parisina erano giovani, avevano solo 20 anni; erano nel fiore della giovinezza con la purezza del primo amore.

Una storia struggente, con un bellissimo finale. Ce lo recita?
I se e va e mond, l’amor ad Parisina, / l’è l’amor d’ades, a dir, at prima, / da quand e sorz e sol per l’eternità / tot us ferma, senza felicità. / Dop cu sa cnusu l’amor e la su potenza / se su calor, tla vita un spò fe senza, / quii chil zerca iè fortuned sil trova, / le sa un minut, per avè la vita nova.

lunedì 27 aprile 2009

Dany Greggio, il Gentleman della musica

Sul cappello texano è appuntata una stella rossa con l’effigie di un irriconoscibile Lenin bambino: Dany Greggio, cantautore e attore nato in Sudafrica da genitori italiani, da anni trapiantato in Romagna, porta in testa con personale eleganza il sogno americano in declino e le false promesse di un comunismo ancora in fasce. Ritratto intervista di Dany Greggio, in occasione della pubblicazione del primo disco.

Incontrare un artista come Dany Greggio significa, fra le altre cose, avere a che fare con un talento riconosciuto della new wave cantautorale italiana ma anche con l’attore ‘feticcio’ di Motus, il gruppo teatrale italiano per il quale Greggio lavora dal 1999, quando fu notato da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, i ‘dioscuri’ di Motus, mentre apriva il concerto dei La Crus al Teatro Novelli di Rimini. Era il 28 dicembre 1998. Esattamente dieci anni dopo, nello stesso teatro, in una serata introdotta dalle performance di amici musicisti come Giuseppe Righini e Daniele Maggioli, Dany Greggio ha presentato, assieme ai suoi “Gentlemen”, il recente debutto discografico, l’omonimo album con 14 tracce inedite e due monologhi. Un lavoro dove si respira la complessità ma anche la sincerità di Greggio, capace di esprimersi su registri differenti: ballad romantiche, sonorità jazz, testi di denuncia cantati con grazia ed ironia. Soprattutto autentico teatro/canzone/performance, sulla scia di Giorgio Gaber e Tom Waits.

Tanti anni di ricerca e sperimentazione musicale: dagli esordi punk al cantautorato, con il disco pubblicato da Interno 4 Records e NdA Press, l’album “Dany Greggio & The Gentlemen”. Come stanno andando le vendite?
Molto bene. Abbiamo distribuito tutto il materiale stampato, ma per avere dati concreti dovremo attendere un po’. Il disco è in vendita nelle librerie: Feltrinelli, Interno 4 e su vari siti on-line. Ispira fiducia e curiosità il packaging prezioso, curato nei minimi particolari.

Il disco si presenta con una copertina ed un libretto d’autore realizzati da Gianluigi Toccafondo. Come è nata la vostra collaborazione?
Per il disco desideravo realizzare un lavoro fotografico con Federica Giorgetti (la sua compagna, ndr.) ma siamo rimasti in dolce attesa e abbiamo dovuto cambiare programma. Forse doveva andare proprio così, ed una notte ho sognato Gianluigi Toccafondo ed ho capito che dovevo chiamarlo.Gianluigi è un caro amico,quindi gli ho telefonato e gli ho detto che stavo facendo un disco, se voleva aiutarmi. Lui aveva appena terminato di fare l’aiuto regista per Gomorra e aveva una gran voglia di disegnare: gli ho mandato del materiale e dopo tre settimane mi ha mostrato le tavole. La sua collaborazione è stata un vero atto d’amore ed ha aggiunto valore all’intero progetto.

Cosa rappresenta questo lavoro per te?
Il disco è lo specchio delle esperienze che ho vissuto sino ad adesso. Forse non è propriamente semplice, denota una complessità intrinseca che è frutto delle esperienze e degli incontri di anni, ma è assolutamente sincero e fuori dalle furberie di mercato. Non mi sembrava il caso di aggiungere un ulteriore disco inutile e cretino al panorama del prodotto musicale italiano.

E come lo valuti in tre aggettivi?
Letterario, visionario, teatrale. Tutte le musiche e i testi sono miei, tranne la Vita agra, che ho tratto dal libro omonimo di Luciano Bianciardi e “Sei arrivata” il cui testo è stato scritto a 4 mani con Cristiano De Andrè. Ai testi tengo particolarmente e voglio che siano comunicativi e non banali, ma c’è anche molta ironia, che ritengo sia fondamentale per comunicare.

Chi sono i “Gentlemen” e da dove è uscito questo nome?
I Gentlemen sono nati tre anni fa, dopo una lunga messa a punto del progetto musicale. Il nome è ironico: pensare ad un gentleman fa venire in mente un signore inglese tutto impettito e ciò contrasta decisamente con il nostro modo di fare musica. D’altro canto, dire “gentle” è come riconoscere uno stile, un’eleganza interiore che ci rappresenta,lo sento più vicino ad “Emo”,come si definiscono alcuni ragazzi di questo tempo. Chiusi rispetto alla bruttura dei modelli e status imperanti, per difendere una gentilezza e purezza di sentimenti che scardina invece i luoghi comuni e le paure del diverso in generale.
I Gentlemen sono, Andrea “Atto” Alessi, al contrabbasso, che con me è la colonna portante del progetto. È grazie a lui che sono stati coinvolti Simone Zanchini, tastiere, e Vincenzo Vasi, theremin e vibrafono. Con loro ho capito che il progetto era a fuoco.

I tuoi concerti sono performance teatrali, reciti monologhi, cambi voce, idioma: quanto della tua esperienza sul palco con i Motus conta in tutto ciò?
Nelle mie performance vocali mi aiuta molto il teatro. Lo studio della voce inizia dal brano e dal personaggio di cui voglio raccontare. I caratteri che interpreto sono presi in parte dalla realtà, altri nascono da improvvisazioni con amici attori. Inoltre, per esprimere in maniera diversa, o dare un’ambientazione particolare, ad una canzone già scritta, ho trovato che calzasse un determinato personaggio piuttosto che un altro. Dai Motus la cosa più importante che ho imparato, e che forse non sempre riesco ad applicare, è che c’è sempre una misura, un punto di equilibrio variabile che mantenga forte ed incisivo un atto performativo, un equilibrio da ricercare continuamente.

Hai detto che tra recitare e cantare ami di più cantare. Per quale ragione?
Non riesco a spiegare a parole ciò che sento. Non è che amo di più cantare, è che cantare e suonare mi coinvolge e mi agita molto di più..sia in positivo che in negativo. È per questo che scrivo canzoni: il linguaggio poetico è più vicino alla mia anima, perché lavora su una sfumatura che ti resta dentro e che puoi raccontare senza dover dare spiegazioni precise. Come accade in una foto. È qualcosa di più immediato. Sai da dove arriva, ma resta aperto a tanto altro.

Hai girato davvero tanta parte del mondo, adesso sei in Romagna. Cosa ne pensi di questa terra?
C’è tanta apertura mentale, almeno formalmente e penso che la Romagna sia un buon punto di osservazione: poi però devi anche partire. Bisogna uscire, confrontarsi con gente che non ti conosce e che non puoi sapere come è disposta nei tuoi confronti.

Ci vuole coraggio a fare il mestiere di artista?
Ci vuole più coraggio ad essere se stessi, forse. Penso che per fare questo mestiere ci voglia soprattutto tanta passione e perseveranza. La passione ti ripaga moralmente e artisticamente. A livello economico il ritorno è difficilissimo, ma poco importa, se ti riconosci in quello che fai. È questa la qualità della vita.

BIOPIC
Dany Greggio nasce a Johannesburg alcuni anni fa. Il lavoro del padre lo porta a girare a lungo per l’Africa: Sudafrica, Libia, Marocco, Egitto. Rientrato in Italia si iscrive ad Architettura a Venezia, città dove studia, lavora e suona. In quegli anni gestisce il Paradiso Perduto, già importante luogo di ritrovo per gli amanti della musica, del vino e del cibo. Scrive diverse canzoni: “Natale a Milano” viene inserita in un album di La Crus mentre “Sei arrivata” viene incisa anche da Cristiano de André. Proprio i La Crus portano in tour Dany Greggio che nel 1998 apre i loro concerti. Il 28 dicembre 1998 l’incontro con i Motus. Il resto è storia.