lunedì 20 dicembre 2010

Consigli per evitare i tumori e rimanere giovani

1) Mantenersi snelli tutta la vita. Calcolare l’indice di massa corporea (BMI= peso in kg diviso altezza in metri elevata al quadrato. Es: 70 kg e h 1,74 = 70 / (1,74 x 1,74) = 23,1 ). Un intervallo normale è fra 18,5 e 24,9.
CE L'HO.


2) Mantenersi fisicamente attivi tutti i giorni (camminata veloce di almeno mezz’ora al giorno. Arrivare a un’ora o praticare uno sport).
MI MANCA.


3) Limitare il consumo di alimenti ad alta densità calorica (cibi raffinati, precotti, preconfezionati) ed evitare il consumo di bevande zuccherate.
CI PROVO.


4) Basare la propria alimentazione su cibi di provenienza vegetale, con cereali non raffinati e legumi in ogni pasto. Sommando verdura e frutta sono raccomandate almeno 5 porzioni al giorno. Evitare le patate.
CI SIAMO QUASI.


5) Limitare il consumo di carni rosse (ovine, suine, bovine, vitello) ed evitare il consumo di carni conservate (salumi, prosciutti, wurstel). Non superare comunque i 500 gr settimanali.
NIENTE CARNE DA 16 MESI.


6) Limitare il consumo di bevande alcoliche. Un bicchiere di vino al giorno va bene, ma solo durante i pasti.
PREFERISCO ANDARE OLTRE.


7) Limitare il consumo di sale e di cibi sotto sale. Evitare i cibi contaminati da muffe, in particolare cereali e legumi.
CONCORDO.



8) Assicurarsi di un apporto sufficiente di tutti i nutrienti essenziali attraverso il cibo. L’assunzione di supplementi alimentari (vitamine o minerali) è sconsigliata.
LETTERATURA CONTRADDITTORIA SU QUESTO PUNTO.


9) Allattare i bambini al seno per almeno 6 mesi.
MIA MOGLIE IL PRIMO FINO A 16 MESI, IL SECONDO MI SA ANCHE PEGGIO.



10) Non fare uso di tabacco.
HO SMESSO.

domenica 28 novembre 2010

Arkadij Dolgorukij

Cara C.*,

spesso negli ultimi tempi mi sono trovato ad un passo da una decisione come quella che ho or ora preso, e che ho voluto renderti attraverso questo vile pezzo di carta. Non è facile per un uomo come me, con tutte le responsabilità che negli anni ho voluto assumermi, voltare la schiena adesso, per schivare quest'ultimo peso che, tu, mi hai caricato e che io, ignaro, ho accettato. Tu sai come io non mi sia mai risparmiato. Il primo ad alzarmi al mattino, l'ultimo a coricarmi la sera; indefesso sul lavoro - uno stakanovista, come proprio tu qualche giorno fa hai detto, ridendo. Eppure, come tutti i grandi uomini, anche io ho scoperto il mio limite, il mio lato debole, la mia ferita che sanguina e che mi rende pari agli altri esseri su questa terra. E' vero, ho fatto in modo di apparire meglio di quello che sono, ma se l'ho fatto ciò non è dovuto a vanità, a brama di potere: ma solo perchè ho aspirato a dare a te e al nostro piccolo M.* quella serenità e quella sicurezza nella quale per tanti anni vi siete beatamente crogiolati.

Eppure, nei miei sogni, un'ombra si è allungata, inghiottendo tutto me stesso.
Ricordo i miei primi anni, in cui mia madre solerte mi suggeriva, mi educava, avvicinandomi ad un altro ideale, che poi avrei un giorno sconfessato. Ecco perchè questa nuova sofferenza, questa rinuncia, questo improvviso ma non impulsivo atto di volontà, è giunto infine a rivelarsi.
Cara C*, ho apprezzato ogni tuo gesto dal primo momento. Sai che i nostri caratteri hanno spesso preso fuoco per un nonnulla, e che tante altre volte ci siamo ritrovati. Eppure, questa vicenda che ha allineato una serie non da poco di successi che farebbero scomparire tanti uomini, ha incontrato infine la tormenta che ha paralizzato le mie membra, la mia fin qui ferrea volontà.
Non intendo prolungare questa attesa, ormai la decisione è presa e non saranno le tue parole, o lacrime, o lusinghe, a smuovermi: come una roccia che resiste al mare in tempesta per secoli, con la fronte fiera di fronte alla violenza delle onde, così io sto, con cuore sanguinante di ricordi appassionati, interpretando il carnefice nell'atto finale di questa tragedia che non trova più senso neanche nelle parole, nei pensieri appena accennati, di cui sommamente mi sono vergognato.
Che smacco, che sofferenza: quanti ne parleranno? Con chi ti potrai scagliare, dopo che ogni fiducia in me riposta sarà venuta meno, per sempre? Avrai ancora il desiderio, o la pietà, di scrutare oltre il tuo sguardo nei miei occhi impassibili ma velati da quell'aura indelebile di fallimento?
Ebbene, mia cara: con mani tremolanti e voce soffocata dai singulti di un'autorevolezza ormai defunta, ti confesso di aver deciso di interrompere per sempre la lettura de "L'Adolescente" di Fedor Dostoevskji che mi hai regalato per il mio compleanno.
Mi sono chiesto tante, troppe volte, sfogliando quelle pagine bianche e fitte di minuscoli caratteri, che cosa c'entrasse tutto questo con la mia vita. Io minuscolo Ismael nelle fauci della Balena Bianca dei vari Tolstoj, Dostoevskji, Turgenev, confesso ora al mondo di non esser atto a consumare, riga dopo riga, alcunchè siffatto. Una brama smodata di vita, personaggi più prossimi al mio sentire, mi hanno alfin costretto, mio malgrado, nonostante una volontà capace, pagina dopo pagina, di terminare enormi a volte faticosissimi tomi, a chiudere gli occhi e sopportare l'onta di questo insuccesso.

Cara C.*, il tuo tentativo nobile, non fu vano, perchè 158 pagine le ho infin consunte. Ma di Arkadij Dolgorukij e dei suoi tormenti, dei logorroici turbamenti, di quella ricchezza tutta mentale di vissuti così tribolati; di quell'euforia adolescenziale, di quei propositi eroici perduti abbandonati una riga dopo, cosa hanno a che fare con me, con la mia vita? Quale consonanza? Nessuna.
Così ridiscende il velo che tu hai tentato, mia amata, di squarciare. E di questo tentativo sempre grato sarò a te, ma soprattutto alla tua fiducia che io, ahimè, stavolta, ho pagato male, sconfessandola. Non averne.

Ti prego, non averne. Perdonami. E se il tuo sdegno mi travolgesse, io non farei nulla per togliermi dalla tua strada, perchè ogni parola astiosa, ogni rimprovero, ogni diniego, è ben meritato e lo attendo, impaziente. Non ho potuto, non ho potuto: il solo Cecov, fu per me una lettura che potei attendere. Tutto il resto è polvere stesa su migliaia di pagine e di storie che hanno infiammato i cuori di milioni di lettori, per cent'anni e cent'anni. E che mai leggerò.

Tuo, R.*

giovedì 25 novembre 2010

Edipo Re

Un super affollato Mulino di Amleto ha salutato sabato 13 novembre scorso la riapertura della stagione teatrale 2010-2011 con lo spettacolo “Il Caso Edipo - anamnesi di una tragedia”. In scena Edipo, re e rockstar di pinkfloydiana memoria, desideroso di salvare il popolo su cui regna da anni, i tebani, afflitti da calamità per l'ira del dio Apollo. Tiresia dà il responso: è lui, Edipo, la causa del malanimo divino. Il re respinge con violenza le accuse del cieco indovino ma a poco a poco la verità si farà largo sino al tragico epilogo.
Edipo Re è una tragedia di Sofocle, andata in scena per la prima volta presumibilmente negli anni ‘20 del quinto secolo avanti Cristo. Il tema è quello dell'ineluttabilità del destino, al quale né Edipo – parricida, né Giocasta – madre incestuosa, né Laio – assassinato dal figlio, possono sottrarsi nonostante i diversi tentativi. Fin qui la vicenda è nota.
Lo spettacolo proposto dalla Compagnia di Banyan che ha tagliato il nastro della stagione “Nube di Oort” dedicata ai 'transiti di nuovo teatro' è diretto da Gianluca Reggiani, che ha messo in scena attori non professionisti nella remise en place del 'saggio', frutto del laboratorio teatrale dello scorso anno. In scena gli attori si muovono disciplinatamente sulle traiettorie disegnate da Reggiani, interpretando il testo di Sofocle (e rispettandolo), contrappuntato per tutta la durata della tragedia dalle canzoni di “The Wall” il concept album del 1979 dei Pink Floyd: una scelta interessante, una piacevole sorpresa, con momenti di assoluta consonanza fra i testi e le musiche di Waters e Gilmour e le parole di Sofocle.
In scena, il coro, in abiti medici, 'seziona' i personaggi e quindi lo stesso Edipo che, solo sotto i riflettori della sala operatoria, di fronte alle radiografie delle sue scelte, trova infine le tracce di una verità orribile, impronunciabile, nefanda, turpe.
Partendo dal presupposto della non professionalità degli attori, lo spettacolo è ben riuscito: si perdonano, infatti, volentieri voci un po' fiacche o eccessivamente stentoree e qualche piccolo vuoto di memoria (che capita spesso anche ai 'big'). Poderosa la performance di Edipo; bravissimo anche Tiresia (che si esprime in napoletano stretto, a rendere la 'non immediata decifrabilità' con cui gli indovini enunciavano le proprie sentenze), e non è da meno il suo 'traduttore'; bene il servo, il pastore e la 'guardia del corpo' del re. Spicca la regia di Reggiani, che ha saputo plasmare una materia antica in un contesto moderno. Nel complesso dei 90 minuti di durata, lo spettacolo risulta talvolta ridondante, per un utilizzo un po’ eccessivo del parallelo Pink Floyd/Sofocle, con musica anche invasiva e sopravanzante le voci in scena. Forse, osando maggiormente, il regista, anima del Mulino di Amleto, avrebbe potuto spingersi ancora più in là sulla strada della sperimentazione, facendo di Edipo una vera rock star, e quindi cercando un'altra via per la gestione del coro. La doppia metafora – musicale e medica – appare alla fine non del tutto integrata.
È innegabile tuttavia che la musica sia stata un elemento trascinante e alla fine sia risultata vincente per la riuscita dello spettacolo, inondato dagli applausi sulle note di “Another brick in the wall – part II”. Nella sua natura, Banyan, che propone una curiosa stagione teatrale, evidenzia l'anima laboratoriale, dei tanti e affollati corsi di teatro che vi trovano luogo. Ecco forse la ragione per cui si è voluto dare inizio alla stagione con uno spettacolo che tradisce, ogni tanto, le sue radici di 'saggio': per questo poteva essere collocato in un altro momento del cartellone. Comunque sia, l'applauso finale prolungato ha sottolineato giustamente un progetto piacevole, perfettibile, che mette in luce in primis le doti di Gianluca Reggiani nell'anno che deve, per forza, essere quello della 'rinascita', come sottolineato in apertura, prima del buio in sala, dallo stesso regista. Un augurio che condividiamo e che rivolgiamo di cuore, per la salvaguardia, la crescita, la difesa di uno spazio-patrimonio culturale di tutti.

lunedì 22 novembre 2010

Alessandro Formica

Riservato, sensibile, con un forte senso di responsabilità nei confronti del proprio impegno professionale e sociale. Alessandro Formica, Presidente dei Giovani Industriali di Rimini, si racconta al pubblico. Per la prima volta.

Quando il suo nome l’estate scorsa è apparso su tutti i giornali, molti si sono chiesti chi fosse il nuovo Presidente del Gruppo Giovani di Confindustria Rimini. Alessandro Formica, 32 anni, laurea in Scienze Politiche Internazionali, impegnato in Alfad, l’azienda di famiglia, ha scelto Rimini IN Magazine per parlare del suo nuovo ruolo, della città, di sé. Ci accoglie nella sua abitazione, piena di opere d’arte, che ha personalmente ristrutturato.

Come hai vissuto questi primi mesi da Presidente dei Gruppo Giovani?
Pur avendo fatto parte del consiglio direttivo dei Giovani di Confindustria di Rimini, per me è un’esperienza nuova ed importante. La mia idea è continuare su quanto tracciato dalla presidenza precedente, integrando nuove iniziative rivolte ai più giovani e approfondendo il rapporto con le scuole: un passaggio che ritengo fondamentale.

Con che stile ti approcci a questo lavoro?
Sono convinto che un presidente non possa fare nulla senza un lavoro di squadra: è l’unico modo per poter tagliare traguardi anche importanti. Il Gruppo Giovani è una palestra di esperienza, di contatti, di relazioni: la visibilità e il ruolo di presidente ha accentuato questa caratteristica, allargandola in ambito regionale e nazionale.

Lavori in nell’azienda di famiglia con tuo padre e tuo fratello: sei un giovane imprenditore di seconda generazione. Di cosa vi occupate?
Precisiamo: sono un giovane “aspirante” imprenditore. Alfad, una delle aziende di famiglia fondata da mio padre Mario e di cui mio fratello Giampaolo è direttore commerciale, si occupa di servizi fieristici integrati ed in particolare di allestimenti, mostre d’arte, musei, di scenografie e di eventi a livello nazionale ed internazionale. Siamo partner delle più importanti fiere italiane fra cui Milano e poi Bologna e Roma per le quali abbiamo contratti di fornitura in esclusiva.

Di cosa ti occupi?
Il nostro gruppo è composto da 5 aziende: io ne dirigo una e coordino l’attività del settore mostre e musei. La mia professionalità ed il mio lavoro, ovviamente, è a disposizione di tutto il gruppo.

Com’è lavorare in famiglia?
È sicuramente più difficile dal punto di vista relazionale. Avere un’azienda “in casa” è insieme una grande opportunità e una responsabilità. Anche fuori dal lavoro vivo molto il rapporto con i miei fratelli ed i miei genitori: tanti dei valori che costituiscono la mia etica li ho imparati da loro.

Come è nato il tuo impegno in Confindustria?
Quando ho compiuto 20 anni mi sono iscritto, dietro consiglio di mio padre. Il primo impatto è stato duro, perché incontravo imprenditori di 35/40 anni, con famiglia e professionalità consolidata, mentre io ero ancora un ragazzino. Per me è stata una grande palestra di vita, sono cresciuto vedendo e ascoltando.

Come hai maturato la tua candidatura a Presidente?
Credo nell’Associazione, prima di tutto. Ecco perché dopo sei anni di direttivo ho sentito il desiderio di dare un apporto maggiore, coltivando la sana ambizione di dare il mio contributo allo sviluppo del Gruppo Giovani.

E quale “imprinting” vorresti dare all’Associazione?
Il Gruppo Giovani può ricoprire un ruolo di guida e di aiuto per chi si affaccia per la prima volta al mondo dell’imprenditoria, soprattutto per gli under 30 anni, e allo stesso tempo consolidare i rapporti e la crescita di chi è già all’interno della vita imprenditoriale ed associativa.

Il tuo campo d’azione è Rimini: che rapporto hai con questa città?
Adoro Rimini e sono fiero di essere riminese: ci tengo sempre a sottolineare il mio essere romagnolo!

Non si può comunque dire che Rimini stia attraversando un buon momento: viabilità, un’estate disastrosa per il nostro turismo, ‘campanili’ anche a livello sportivo. Buoni ultimi i problemi del Palacongressi, ancora senza una data di inaugurazione. Cosa ne pensi?
Al di là delle polemiche, le strutture fatte devono essere rese operative nell’interesse dei cittadini e delle associazioni di categoria. La mia famiglia ha creduto da subito al nuovo Palacongressi: infatti, rappresento Alfad, unico socio privato, nel CdA di Convention Bureau, società deputata alla gestione del Palacongressi. È evidente però che certe situazioni devono farci riflettere su come sono state gestite. Sono comunque ottimista e mi impegnerò per migliorare la mia città.

Quali sono i passi da compiere in questa direzione?
Occorre smettere di dire che le cose vanno male per colpa di altri: noi siamo gli altri. Dobbiamo assumerci una parte di responsabilità e recuperare un po’ di senso civico.

Da dove si deve cominciare?
Da una riflessione. Mi sembra evidente che oggi si consideri più importante “cosa” facciamo rispetto a “come” facciamo le cose. Io credo che la vera sfida sia trovare il giusto equilibrio fra questi due aspetti.

Cosa fai allora quando hai tempo per te stesso?
Cose semplici. Lavoro e impegni istituzionali mi lasciano poco tempo libero, che divido fra famiglia e sport, la mia vera passione, che mi permette sì di tenere allenato il corpo, ma soprattutto di scaricare la mente.

Qual è il luogo di Rimini che ami di più?
Il mare: è la prima cosa che voglio vedere quando sono di ritorno da un viaggio.


*Uscito sul numero di Novembre/Dicembre 2010 di Rimini IN Magazine
**Fotografie di Riccardo Gallini

mercoledì 10 novembre 2010

Silvio e il Mule

Questo lo devo scrivere, perchè non mi lascia in pace. 
Berlusconi. Berlusconi è 'sceso' in politica (perchè prima stava in alto, e la politica è piccola, rasoterra, che le puoi pure dare un calcio che tanto non se la fila nessuno) nel 1994, quando ho compiuto 18 anni e ho potuto votare per la prima volta. In pratica, il suo nome, il suo simbolo, è sempre stato in tutte le schede che ho votato nella mia vita. Oggi ho 34 anni, sono passati 16 anni, e lui è ancora lì. A parlare di famiglia (dopo aver divorziato, tradito la seconda moglie, passato in rassegna una lunga fila - a leggere i giornali - di donne che, l'ha detto lui, gli piacciono: "e che ci posso fare? mi piacciono le donne. alla mia età non cambio." "Meglio puttaniere che gay".), di bene comune (quando ha fatto della sua/delle sue imprese una delle ragioni di vita), di politica (cioè un qualche cosa che ha a che fare con il cittadino, con la città, una vocazione di dono agli altri, la più alta forma di carità, da lui scambiata sicuramente per qualche cosa più prossimo ai propri bisogni individuali). Fra barzellette, bestemmie, avvisi di garanzia, feste, ricchezza, ville, denaro - tanto, tanto, tanto denaro - sempre indenne, sempre vivo, dopo polemiche che avrebbero stroncato un Clinton, un Miterrand, uno Zapatero qualunque. Eppure lui è ancora lì, a governare (?) un Paese, il mio, allo sbando, vessato da una politica che è uscita dalle piazze per entrare nei salotti Tv, da polemiche che non hanno niente a che fare con la gente comune - che prona morbosamente assiste a tutto quello che passa il MediaConvento - da problemi a cui non si trova soluzione. Ora siamo alla stretta finale: riuscirà Fini a farlo cadere? 
Ma la mia riflessione non è questa: questo è un dato di fatto, una storia che, più o meno, tutti conoscono.
La mia riflessione nasce dalla semplice constatazione che Silvio ha 74 anni e tra un po' dovrebbe, per raggiunti limiti di età, morire (se non lascia la politica prima, ma c'è da scommetere che non lo farà). Mettiamo che muoia. Come verrà ricordato il suo impegno politico? Per quali risultati? Per quali barzellette? Per quali milioni di posti di lavoro? Io credo che, con il senno di poi, tra trent'anni, guarderemo a questo periodo come ad un sogno, o un incubo, a qualche cosa che non sarà più possibile ripetere, a qualche cosa che non sembra nemmeno vero. Nessun politico potrà fare come lui, perché nessuno avrà il coraggio di osare tanto, sfidando le leggi, il buon senso, il costume, l'etica, la morale, la religione, l'amore. Nessuno potrà portarsi belle donne a Palazzo Grazioli o altrove, nessuno ci diletterà con le sue passioni musicali o sessuali. Dovremo per forza tornare a parlare di politica e a vivere la politica, soprattutto, in un modo diverso, più vicino alla gente. Anche lui è stato vicino alla gente, ma in modo subdolo, facendo appello agli istinti più bassi, alle curiosità più morbose; come ha scritto Severgnini, Berlusconi ci piace perché c'è un po' di Berlusconi in tutti noi. E ha ragione.
Ma, dicevo, tutto questo sta per finire, fra poco e come potremo valutare il suo tempo? Un tempo pazzo, involuto, sprecato forse; la fine di un sogno da cui riemergeremo più poveri, disillusi, stanchi. 
In un libro di Isaac Asimov, "Fondazione e Terra "(pubblicato in origine come "Il crollo della Galassia centrale"), secondo capitolo del Ciclo della Fondazione, il Piano Seldon è minacciato. Hari Seldon, uno scienziato, aveva inventato la psicostoriografia, una scienza matematica con la quale si poteva 'capire', a grandi spanne, come sarebbe andato il futuro. Il Piano Seldon sembra svolgersi correttamente: ad ogni crisi intergalattica, sopraggiunge la soluzione che Seldon ha predetto (ma che lui stesso, in filmati registrati proiettati nella "volta delle stelle", racconta solo a posteriori, per non condizionare gli esseri umani nelle loro azioni). Ma Seldon non ha considerato il Mule. Un essere mutante, capace di usare la forza del pensiero per piegare i nemici al suo volere, che rapidamente conquista buona parte dell'universo. Il Mule viene a sapere che esiste una 'seconda Fondazione' (la prima, con il suo arrivo, ha 'fallito' e il Piano Seldon è andato a rotoli) e si mette alla sua ricerca per distruggerla ed avere il controllo della galassia. Non andrà così. La sua memoria, la sua volontà, sarà 'cancellata' dagli uomini della seconda Fondazione: il Mule, pur continuando a governare, dimenticherà di questa sua ricerca, morendo quasi da imperatore 'illuminato'. Del Mule non resta traccia.
Un'anomalia, nel Piano Seldon, come Berlusconi è un'anomalia nel Piano Italia. E' questa la mia idea, è questa la mia speranza, che per ragioni anagrafiche potrò vedere da vicino, se il buon Dio me lo permetterà. Ci dimenticheremo di Silvio, dei suoi comportamenti, di questa stagione im-politica senza una rotta, senza un perchè, in una degradazione del servizio pubblico che ha colpito anche molte brave persone, provocando un allontanamento che ai più pare insanabile, dell'uomo, del cittadino, delle persone dalla cosa pubblica. Eppure, per quanto dolore abbiamo provato, questo tempo finirà. Portandosi via ogni anomalia, restituendo alla storia il suo giusto fluire.
Ecco, lo volevo dire, l'ho detto.

domenica 7 novembre 2010

Ore

"Sì," dice Clarissa. "E' ora."
Sembra che in questo momento Richard cominci davvero a lasciare il mondo. Per Clarissa è una sensazione quasi fisica, uno strappo morbido ma irreversibile, come un filo d'erba che venga tirato via dalla terra. Fra poco Clarissa si addormenterà, fra poco tutti quelli che lo conoscevano si saranno addormentati, e tutti si sveglieranno domani mattina per scoprire che lui si è unito al regno dei morti. Si chiede se l'indomani mattina segnerà non solo la fine dell'esistenza terrena di Richard, ma anche l'inizio della fine della sua poesia. Dopo tutto ci sono così tanti libri. Alcuni di essi, una manciata, sono buoni, e di quella manciata solo pochi sopravvivono. E' possibile che i cittadini del futuro, persone non ancora nate, vorranno leggere le elegie di Richard, i suoi lamenti cadenzati con tanta bellezza, le sue offerte di amore e furia rigorosamente antisentimentali, ma è molto più probabile che i suoi libri svaniranno con quasi tutto il resto. Clarissa, il personaggio del romanzo, scanirà, così come Laura Brown, la madre perduta, la martire e il diavolo.
Sì, pensa Clarissa, è ora di mettere fine a questa giornata. Diamo le nostre feste; abbandoniamo le nostre famiglie per vivere soli in Canada; combattiamo per scrivere libri che non cambiano il mondo, nonostante il nostro talento e i nostri sforzi senza riserve, le nostre speranze più stravaganti. Viviamo le nostre vite, facciamo qualunque cosa, e poi dormiamo - è così semplice e ordinario. Pochi saltano dalle finestre o si annegano o prendono pillole; più persone muoiono per un incidente; e la maggior parte di noi, la grande maggioranza, muore divorata lentamente da qualche malattia o, se è molto fortunata, dal tempo stesso. C'è solo questo come consolazione: un'ora qui o lì, quando le nostre vite sembrano, contro ogni probabilità e aspettativa, aprirsi completamente e darci tutto quello che abbiamo immaginato, anche se tutti tranne i bambini (o forse anche loro) sanno che queste ore saranno inevitabilmente seguite da altre molto più cupe e difficili. E comunque amiamo la città, il mattino; più di ogni altra cosa speriamo di averne ancora.
Solo il cielo sa perchè lo amiamo tanto.
Qui c'è ancora la festa: i fiori sono ancora freschi, tutto pronto per gli invitati, che alla fine sono solo quattro. Perdonaci Richard. In effetti, e dopo tutto, è una festa. Una festa per quelli che non sono ancora morti, per quelli relativamente in buone condizioni, per quelli che per ragioni misteriose hanno la fortuna di essere vivi.
E', in effetti, una grande fortuna.
Julia dice: "Credi che dovrei preparare un piatto per la madre di Richard?"
"No," dice Clarissa, "vado a prenderla."
Ritorna in salotto da Laura Brown. Laura sorride debolmente a Clarissa - chi sa cosa pensa o sente? Eccola, la donna della furia e del dolore, del pathos, del fascino abbagliante; la donna innamorata della morte; la vittima e la carnefice che ossessionava il lavoro di Richard. Qui in questa stanza c'è l'amata, la traditrice: una donna anziana, una bibliotecaria in pensione di Toronto, che porta vecchie scarpe da signora.
E c'è anche lei, Clarissa, non più la signora Dalloway: non c'è più nessuno a chiamarla così. E ha un'altra ora davanti a sé.
"Vegna, signora Brown," dice. "E' tutto pronto."

Estratto dalle pagg. 165-166 de "Le Ore" di Michael Cunningham (Bompiani, 1999)

mercoledì 6 ottobre 2010

Amare, essere amato...

Amare, essere amato... come sono tristi le azioni umane. Quando ero al secondo o al terzo anno del liceo femminile, durante un esame di inglese, vennero fuori alcune domande sulla forma attiva e passiva dei verbi. Colpire, essere colpito; guardare, essere guardato... mischiati tra tanti verbi come questi, ce n'erano due che emanavano una luce speciale: amare, essere amato. Mentre guardavamo con attenzione le domande leccando le matite, a un certo punto da dietro le spalle mi arrivò un bigliettino, che qualcuno aveva fatto girare per gioco. Guardai, c'erano scritte due domande: "Vuoi amare?", "Vuoi essere amata?". E sotto la frase "Vuoi essere amata?" scritti con l'inchiostro o con la matita blu e rossa, c'erano molti cerchietti, mentre nella colonna del "Vuoi amare?" non c'era nemmeno il più piccolo segno di adesione. Anch'io non feci eccezione e aggiunsi il mio cerchietto sotto "Vuoi essere amata?". Perfino le ragazze di sedici, diciassette anni, che capiscono ben poco di cosa quelle parole "amare", "essere amato" possano significare, intuiscono già per istinto che la felicità sta nel fatto di essere amate.
Solo la ragazza seduta accanto a me, quando le passai il biglietto, vi diede una rapida occhiata e subito, a colpo sicuro, con un deciso tratto di matita, tracciò un grande cerchio nella colonna bianca ignorata da tutte le altre. Lei voleva amare. Ricordo ancora chiaramente che provai nello stesso tempo antipatia per quella compagna priva di mezze misure, e disorientamento per essere stata colta di sorpresa. La ragazza era un tipo insignificante, dall'aria malinconica, e i suoi voti non erano particolarmente alti. Non ho idea di come sarà diventata da grande quella ragazza dai capelli un po' rossastri, sempre sola, ma chissà perchè, dopo più di vent'anni, mentre scrivo questa lettera, i lineamenti del suo viso mi tornano chiari alla mente.
Quando, giunte alla fine della loro vita, serenamente distese, volgeranno il loro viso al muro della morte, tra la donna che ha goduto appieno della felicità di essere amata e la donna che può dire di avere avuto poche gioie ma di aver amato, a quale delle due Dio vorrà concedere il tranquillo riposo? Ed esiste, in questo mondo, una donna che possa dire davanti a Dio: "Io ho amato"? Sì, sono sicura che esiste. Forse la ragazza dai capelli sottili crescendo è diventata una di quelle poche elette. Avrà magari i capelli in disordine, il corpo segnato dalle ferite, gli abiti a brandelli, ma potrà dire a testa alta, con fierezza "Io ho amato". Ed esalare l'ultimo respiro.

Brano tratto da "Il fucile da caccia" di Inoue Yasushi (Adelphi, 2004)

giovedì 30 settembre 2010

Francesco Cesarini

L’appuntamento per questa intervista* è stato fissato negli studi di viale Sassonia 22 a Rimini, dove dal primo settembre 2010 ha iniziato a trasmettere Tele1, il polo televisivo di proprietà di Germano Zama che sul territorio è diretto da Francesco Cesarini, riccionese classe 1971, che ci accoglie nel suo ufficio.

Il tuo ingresso ufficiale in televisione è stato da giovanissimo, a Telesanmarino, l’emittente fondata da tuo padre Marzio nel 1989: uno straordinario professionista alla cui scuola hai potuto imparare il mestiere che fai anche oggi. Come hai mosso i primi passi?
Sono praticamente cresciuto nella televisione: nel 1978 mio padre era infatti diventato direttore di Tele Gabbiano; inoltre, era inviato del Corriere Sport Stadio sul territorio: me lo ricordo ancora dettare i pezzi a braccio al telefono subito dopo una partita di calcio. Era incredibile, non sbagliava una parola e mi chiedevo: “Ma come fa? Come fa?”

Uno dei primi campi in cui ti sei cimentato è stato, per l’appunto, quello da calcio…
Il sogno di tutti i bambini. Ho giocato da attaccante militando in varie squadre sino alla serie C in tutta Italia. Prendevo lo sport con grande serietà, ma mi divertivo moltissimo e il calcio mi ha insegnato tanto e regalato belle amicizie.

Nel frattempo hai trovato il tempo per portare avanti gli studi universitari per affacciarti al mondo del giornalismo.
Mi sarebbe piaciuta una carriera universitaria, ma l’attrazione per i media è stata più forte: fin da piccolo ero spesso a rimorchio di Marzio, con cui scrissi a quattro mani i primi articoli, per poi  entrare a Telesanmarino.


Come sono stati gli inizi?Duri. Il mio primo pezzo è andato in onda dopo ben tre mesi, ed ero il figlio del padrone!

Ti ricordi il tuo primo servizio da giornalista?Era dedicato al pre-partita di una sfida di calcio ai mondiali, giocava la Nigeria. Dovevo intervistare alcuni ambulanti extracomunitari, la maggior parte dei quali scappava non appena vedeva la telecamera.

Ti sei mai ‘bloccato’?Al MistFest di Cattolica nel 1994 intervistai Monica Bellucci nell'ambito di una rassegna sui gialli e i misteri.  Le dissi: “Monica Bellucci: un mostro di bellezza a Cattolica”. Non ricordo la risposta. Mi paralizzai: una donna così bella da vicino non l’avevo mai vista.

Qual è una delle tue maggiori soddisfazioni professionali?L'aver accreditato La8 sul territorio in questi anni.

Un episodio che ricordi particolarmente?
Nel 2002 alla Fiera di Rimini c’erano 25 Tv attorno a Michail Gorbacev, intevenuto a “Ricicla”. Io facevo da cameraman, con un’attrezzatura molto datata, a mio padre, che si muoveva fra quella folla di giornalisti con il suo bastone. Al “question time”, tutti alzarono la mano, lui il bastone. E Gorbacev lo indicò. “Marzio Cesarini di Gabbiano Tv” disse, e il presidente si fece spiegare chi eravamo. Tutte le Tv presenti chiesero poi di riascoltare la cassetta.

A 33 anni, per la prematura scomparsa di tuo padre avvenuta nel 2004, sei diventato direttore di La8: come vivi questo lavoro?
In maniera totalizzante. Nei primi periodi stavo in redazione anche 13 ore: era sbagliato, ma forse era un modo per stare vicino a chi non c'era più. Ho avuto la fortuna di impararlo anche da tecnico e ne conosco ogni sfaccettatura. Per questo con i collaboratori sono molto esigente ma lo sono prima di tutto con me stesso. Il segreto è  valorizzare le capacità di chi ti lavora vicino e delegare.

Adesso?
Sono diventato babbo e questo ti fa crescere. Impari a dare il giusto valore al lavoro: capisci che se ti concedi solo ad esso, paradossalmente non rendi. E poi da quadrato diventi tondo: più disponibile e flessibile; in fondo nel mestiere di giornalista la più grande qualità e saper ascoltare. 

Con te in azienda c’è anche la tua compagna Daniela. Com’è lavorare assieme?

Stimolante. Stiamo insieme da quando abbiamo 17 anni: è il mio nemico più intimo – scherza. Con lei è un continuo tentativo di crescere e di imparare l’uno dall’altro, insieme. Senza il suo apporto non avrei potuto fare niente di quello che ho fatto.

Come si svolge una tua giornata di lavoro?
Porto mio figlio all'asilo, leggo i giornali, arrivo in uffico verso le 9.30 controllo la posta elettronica, rileggo i quotidiani per capire se abbiamo preso dei ‘buchi’. Poi coordino i giornalisti che escono per i servizi. Ho la fortuna di lavorare con Simona Cesarini, professionista di grande valore, e Sergio Cingolani duttile ed infaticabile, più tutti i tecnici che mi aiutano nelle altre produzioni. C'è poi l'aspetto commerciale: importantissimo perchè ti da la grande libertà, se ci pensi, di dover “rendere conto”solo alla gente e al pubblico che ti segue.

Da settembre 2010 sei su Tele1 (www.tele1.tv): come si è concretizzato questo progetto e quali saranno i primi passi?
Germano Zama, imprenditore nel settore moda ed editore telvisivo, punta alla qualità del prodotto con un progetto che mi ha conquistato. Ne parlavamo già da un paio di anni e alla vigilia del digitale terrestre ho deciso di lasciare La8, bellissima esperienza, per accettare un nuova sfida: diventare la Tv, di fatto e non di nome, della Romagna.

Qualche anticipazione sul palinsesto?

Innanzitutto un Tg ancora più ricco grazie al supporto dei colleghi di Faenza guidati da Maurizio Marchesi. Riprenderemoil “Venga a prendere un caffè da noi”, “La campanella”con le scuole protagoniste. Poi tanto sport: dalla serie A con il Cesena al calcio Dilettanti fino al basket con l'esclusiva dei Crabs Rimini e Aget Imola più tante altre sorprese.

Dove ti vedi fra 20 anni?
Io in questo momento sono una persona felice, con la consapevolezza che quando si è felici non si è lucidi, perché non è uno stato che dura per sempre. Ma almeno ne sono consapevole. Ecco: tra 20 anni spero di essere almeno vicino allo stato in cui mi trovo in questo momento.

*Intervista pubblicata sul numero di settembre-ottobre di Rimini IN Magazine
**Immagini di Riccardo Gallini

venerdì 24 settembre 2010

Silvano Cardellini, un ricordo personale

Ho conosciuto Silvano Cardellini nel 2004, quando partecipava alle conferenze stampa che organizzavo. Arrivava con passo lento, il berretto calato in testa, gli occhiali a metà del naso. I suoi colleghi, se non lo vedevano, mi chiedevano "Silvano viene?" perchè se c'era lui, allora c'era la notizia. Altrimenti, no. Dopo la conferenza, si fermava a confabulare con gli altri giornalisti, che fra l'ironico e il deferente gli chiedevano il taglio che avrebbe dato all'articolo: anche qui, faceva scuola. Aveva un carattere molto difficile: quando componevi il suo numero di telefono sapevi che avrebbe risposto al massimo con un 'Sì?' e che ti giocavi tutto in pochi secondi. Mi sembrava un po' burbero - forse lo era davvero - e all'inizio avevo soggezione di lui. Talvolta mi sgridava - "Non puoi telefonarmi ogni volta per chiedermi se ho ricevuto il comunicato stampa!" - ma gli passava subito e poi, più disponibile, mi ascoltava. Così c'era voluto poco perchè mi affezionassi a lui e lo elevassi al ruolo - senza che l'abbia mai saputo - di maestro.

Un giorno mi hanno detto che era stato male e mi avevano spiegato anche il perchè: mi addolorai molto, così come fui contentissimo, dopo un periodo piuttosto lungo, di rivederlo avanzare fra le poltroncine dell'ennesima conferenza, salutarmi e prendere posto. Ricordo che una mattina che il Sole 24 Ore Centro Nord pubblicò in anteprima una notizia che avremmo dato quello stesso giorno in conferenza stampa, quando lo chiamai per sapere se sarebbe venuto, mi disse con tono di rimprovero: "La notizia è bruciata, non si fa così! Cosa vengo a fare?". Poi arrivò, mi prese da parte e mi disse, con mia grande sorpresa: "Sono venuto solo per rispetto nei tuoi confronti".

Negli ultimi tempi, quando faceva molta fatica a muoversi e sentiva anche dolore - anche se non lo dava a vedere - lo accompagnai ad una conferenza stampa in macchina: parlammo del più e del meno, ma non della sua malattia, della quale forse non c'era niente da dire, perchè era lì, la potevi vedere, la potevi sentire. A chi non sapeva chi fosse, lo presentavo come "Silvano Cardellini, il grande giornalista del Resto del Carlino", e si stupivano di vederlo piccolo, infagottato, quasi camuffato fra berretto, occhiali e sciarpa. Una sera ero passato a trovarlo in redazione: nonostante il Carlino avesse già chiuso l'edizione di Rimini, sembrava avesse ancora molto lavoro da fare. Si fermò a chiacchierare volentieri un po' con me, poi ricevette una telefonata. Era sua moglie che lo aspettava di sotto: d'un tratto - questa è l'impressione che ne trassi - sembrò scrollarsi di dosso la sua maschera da giornalista, il suo aplomb. Si tirò su tutto sorridente, con gli occhi brillanti. Piantò lì ogni cosa, così com'era, prese il soprabito e scese di gran carriera le scale. Gli tenni dietro, mi salutò appena, volò oltre piazza Cavour e lo persi di vista.

Il giorno del suo funerale in Duomo, quando portarono fuori la bara, uno dei portantini mi chiese se volevo sostenerla. Dissi di no, faticosamente, ma mi pentii subito. No, perchè chi ero io per meritarmi questo onore? Mi dispiacque invece moltissimo, perchè mi era sembrato di avergli negato un ultimo favore. E glielo dovevo, eccome! Ancora ci penso, e vorrei averlo fatto: se potessi gli darei volentieri un colpo di telefono, per spiegargli tutto. Ma che prefisso bisogna fare per chiamare in Paradiso?

lunedì 6 settembre 2010

Mountain Mermaid


Mountain Mermaid
















In America?




















Tabernacolo














Predazzo, Murales















Toilette



















Scappo dalla Città








Fotografie © Cinzia T.







martedì 31 agosto 2010

Pampeago, ovvero: quello che volevo veramente scrivere l'ultima che ho postato qualcosa sul blog, ma che non ho avuto il coraggio di fare

Già, quello che volevo veramente scrivere è che sono stato bene, a Pampeago. Che è un luogo fatto di tre alberghi per sciatori, due impianti di risalita, un negozio e quattro parcheggi, vicino a Tesero, in Val di Fiemme (A22 uscita Egna-Ora; direzione Val di Fiemme; dopo Cavalese si sale sulla sinistra per Stava e poi si arriva all'Alpe di Pampeago). L'albergo - che non nominerò per senso pietistico - ha rappresentato tutto ciò che non deve essere un albergo, per cui tralascio volentieri ogni commento.

Al di là delle escursioni, dei pasti consumati in alcune ottime malghe, ciò che mi ha veramente colpito è stato il silenzio assoluto, sentito in alcune particolari occasioni. Ero sulla seggiovia con Cinzia e Matteo e, tra un pilone e l'altro, con il sole che illuminava la vallata e la vetta, e faceva risaltare ogni colore che Dio aveva messo su quella parte di terra che si mostrava ai miei occhi, abbiamo ascoltato il nulla, il vuoto. Neanche un ronzio, non una parola, non un rumore in lontananza. Niente di niente. Anche il respiro sembrava essersi fermato. E via a pensare alla città, ai rumori di sottofondo che non ti lasciano mai solo e che accompagnano la tua vita. Ovunque, dappertutto.

Per questo amo la montagna, perchè mi sembra di poter avere uno sguardo pulito e sincero sul mondo, perchè riesco a percepirmi sottilmente, interiormente, parte del tutto che mi circonda. Perchè riesco a parlare sottovoce e a farmi sentire, senza dover gridare o alzare i toni. La sera, un paio di volte, io e Matteo ci siamo messi sulla veranda, con la coperta tirata su fin sotto il mento, a guardare la luna e le stelle. Nessun lampione, nessuna casa illuminata, nessuna automobile. Anche l'albergo era 'spento', eppure illuminato in parte dalla luce della notte. Bellissime notti luminose.

Un po' di pace, ogni tanto, ci vuole. Rientrato, sbalordito dagli stimoli che ricevo ogni giorno, ho passato la prima giornata in assoluto stordimento. Poi mi sono ripreso, e ho ricominciato a macinare posta elettronica, telefonate e giornali. Stendermi sull'erba, guardare il cielo e le nuvole che si muovono, non percepire nulla se non l'azzurro e il bianco, e il verde e il grigio. Come se gli occhi fossero una finestra, da cui guardare l'infinito, ciò che di 'basico' esiste da sempre in natura. Insuperato.

Le fotografie che corredano questo articolo sono, in ordine di apparizione: n.1: © re.bel; n.2 e 3: © cinzia t.

lunedì 30 agosto 2010

Wonder Michael Chabon, or not

Ho incontrato Michael Chabon al Festivaletteratura di Mantova sabato 8 settembre 2001, alle 18.45, presso il Museo Diocesano. Era presentato da Beppe Severgnini, che scherzò molto sul fatto che gli avevano messo accanto - a lui basso, grigio e 'storto' - questo americano sano, alto, forte, bello. Mi feci anche autografare qualche cosa, che adesso non trovo più. Tre giorni dopo, crollarono le torri gemelle e ci scrivemmo alcune e-mail a proposito.

L'avevo scoperto leggendo Wonder Boys, perchè mi era piaciuto molto il film con Michael Douglas, Robert Downey Jr. e Tobey Maguire. Il libro era ben scritto, divertente, profondo: caratteristiche che ho ritrovato anche nelle Fantastiche avventure di Kavalier & Clay, che forse presentava proprio a Mantova.

Ho da poco invece terminato Uomini si diventa: un bel libro di racconti in cui Michael narra il suo essere figlio, padre (4 volte) e marito (2 volte), aprendo la scatola dei ricordi e il suo cuore con estrema sincerità. E' qui che mi sono trovato a riflettere se sia giusto o meno che uno stimato scrittore di successo metta in piazza molto di sè, soprattutto certi aspetti della propria vita - consumo di droghe leggere, per esempio - che non condivido. Non tanto perchè "non si deve mai fare" o "non avrebbe dovuto provare certe esperienze", ma perchè mi metto volentieri nei panni di un lettore - o del padre di un lettore giovane - che scorrendo le righe dei suoi racconti, incontra spesso e volentieri il tema delle droghe leggere, consumate - appunto - con leggerezza. Non mi sembra di aver letto un mea culpa dovuto alla maturità, anzi: sembra di capire che Chabon ne faccia ancora uso (ed è sacrosanta la sua libertà di fare ciò che vuole, nel rispetto della libertà altrui, s'intende: ma Chabon secondo me - e con lui tanti altri - dovrebbe riflettere sul fatto che, essendo bello, famoso, felice e di successo - tutto meritato, sinceramente - da molti è additato come un 'esempio'.)

Detto questo - e chi sa a chi frega di queste righe moraleggianti, ma tant'è: dovevo scaricarmi la coscienza - il libro è bellissimo. Ci sono passaggi importanti, profondi, altri un po' meno interessanti forse per la lontananza del suo dal mio vissuto. Chabon parla del tempo che scorre, dell'essere diventato uomo. Ricorda la sua prima moglie, gli errori commessi, i momenti di straordinaria e ordinaria intensità della sua grande famiglia a 6 posti. Ma la cosa migliore da fare è leggerlo per capire quanto della sua vita sia condivisibile da tanti, instaurando così una fraternità - piuttosto che un cameratismo - che aiuta a capire meglio anche se stessi.

Beninteso, non è un libro per soli uomini, nonostante il titolo, perchè anche le donne possono leggerlo e gustarlo - io ho letto tanti brani anche a mia moglie - per avvicinarsi di più al nostro universo. Dopo Philip Roth e Jonathan Franzen - per dirne alcuni - prosegue, nell'ambito della letteratura americana, la fase dell'introspezione, della 'prima persona singolare': un momento in cui sembra quasi che gli autori abbiano voluto fermarsi a guardarsi dentro, per fare il punto su di sè. Un recupero della memoria, che forse è solo una coincidenza, frutto di letture incontrate casualmente. Ma se il caso non esiste?
Da tempo sento anche io, prepotentemente, il bisogno di essere in 'prima persona', e spero che ne venga fuori qualche cosa, prima o poi.

mercoledì 18 agosto 2010

Libero chi legge

di Fernanda Pivano*

E' stato mio padre a insegnarmi l'amore per i libri. Ero poco più di una bambina ma ogni sabato pomeriggio mi accompagnava nella sua preziosa biblioteca di diecimila volumi e con una piccola cerimonia di un quarto d'ora ne sceglieva uno tra quelli di Fedor Dostoevskij, Lev Tolstoj e Anton Cechov, Gustave Flaubert e Guy de Maupassant, Thomas Mann e Alfred Doblin, Ljos Zilahy e Ferenc Kormendi (alla moda in quel momento), o della prosa d'arte italiana come per esempio America amara di Emilio Cecchi. Mi spiegava che cos'era e mi chiedeva cosa ne pensavo del libro che mi aveva dato il sabato prima.

Mi faceva leggere anche una minuscola rivista arrivata nelle sue mani per le vie dell'antifascismo, "La cultura", di cui aveva conservato le copie dei primi anni Trenta e dove Cesare Pavese aveva scritto articoli su Sherwood Anderson e John Don Passos, e soprattutto Edgar Lee Master: articoli che, in quel clima di "autarchia culturale", mi avevano aiutato a respingere il "principio di italianità" e a rivolgermi alla "plutocrazia decadente" e alla "democrazia giudaico-massonica" quali venivano definite le civiltà anglosassoni.

E' stato ancora lui a regalarmi la prima copia di Moby Dick, tradotto da Cesare Pavese nel 1932 e pubblicato dall'antica Frassinelli, gloria dell'editoria antifascista torinese. Quello stesso Cesare Pavese sarebbe stato il mio supplente di italiano al liceo Massimo D'Azeglio di Torino. Nelle sue lezioni ci parlava di Francesco De Sanctis e Benedetto Croce; un giorno sono tornata a casa e ho chiesto a mio padre, che si faceva chiamare babbo, se conosceva questi autori. E lui, senza dire niente, mi ha accompagnato nella sua biblioteca e mi ha fatto vedere i loro libri. Avreste dovuto vedere la faccia di quell'insolito professor Pavese quando il giorno dopo li ho portati in aula. Pavese l'ho rivisto nel 1938, dopo il suo confino in Calabria. E' stato lui a farmi capire la differenza tra letteratura europea e letteratura americana, allora sconosciuta in Italia.

Nel 1941 Franklin Delano Roosvelt ha fatto il famoso discorso sulle quattro libertà: libertà di parola, di culto, dal bisogno e dalla paura. La libertà è a tutti i livelli: non avere paura, essere
liberi, senza dittature. Questa era la base del sogno americano e della sua letteratura; la letteratura di cui mi sono innamorata. Per me l'America rappresentava la libertà in un periodo in cui la libertà in Italia non c'era. Infatti poco dopo è scoppiata la guerra, e con la mia famiglia siamo stati costretti a sfollare a Mondovì, in un albergo presidiato dai nazisti. In quella stanza minuscola ho tradotto L'ultimo dei Mohicani di James Fenimore Cooper con mia madre che mi aiutava alla macchina da scrivere. Sognavo che Uncas arrivasse a liberarci.

Avevo già tradotto l'Antologia di Spoon River e da allora ho tradotto numerosi altri libri con la speranza di farli conoscere in Italia. Credo che non avrei potuto fare altro perchè questa è la mia passione. Quando la libertà è arrivata anche nel nostro Paese, sono andata in America per cercare uno a uno quegli autori non ancora famosi tra noi, perchè per me è fondamentale sapere chi è lo scrittore, chi frequenta, da dove viene: perchè ha scritto quello che ha scritto. Tutti i miei testi sono soltanto lettere d'amore; se scuotono dall'indifferenza qualcuno e lo inducono a interessarsi ad almeno uno dei libri descritti e al loro autore hanno raggiunto il loro scopo.

Oggi, molti, troppi anni dopo, ringrazio tutti gli autori americani che ho amato e dico anche a voi di ringraziarli, uno a uno. Tutte le volte che fate l'amore con un ragazzo che non è vostro marito, o con una ragazza che non è vostra moglie, dite grazie a Ernest Hemingway, a Jack Kerouac, a Gregory Corso. Dite grazie ai miei amici scrittori. E per farlo leggete i loro libri che sostengono la non corruzione, la non paura, la non violenza: che sostengono la libertà.

*Introduzione a "Libero chi legge" (2010, Mondadori), volume che raccoglie le 'lettere d'amore' di Fernanda Pivano (18 luglio 1917-18 agosto 2009) ai 'suoi' autori americani.

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Nanda, the Victorian-Beat girl
Intervista di Giulia Santerini a Fernanda Pivano

martedì 17 agosto 2010

Marrakech #2



Questo video non rende bene, ma quasi. Era il 4 agosto 2009 e lasciavamo Marrakech per scoprire Essaouira, città portoghese sulle rive dell'Atlantico. Siamo partiti alle 8 dal centro cittadino, appena fuori le mura. Dopo 15 minuti, ma forse nemmeno, ecco il paesaggio che si delineava ai nostri occhi dai finestrini dell'autobus. Una landa piatta, desolata, popolata da fantasmi di abitazioni, di uomini, di bestiame. La strada era arroventata dal sole e di difficile percorrenza a causa dei lavori in corso. Il rumore di sottofondo del video, girato con una macchina fotografica digitale 'antica', è forse il commento sonoro migliore.

E' stato come essere sospesi su un mondo durissimo, affascinante, che si svolgeva davanti ai nostri occhi. Uno spettacolo terribile e bellissimo, di rocce, sassi spezzati e irregolari, vetture arrugginite, operai, armenti in cerca di qualche ciuffo giallo di erba.

Sulla strada per Essaouira ci siamo fermati a visitare una cooperativa di sole donne impegnate nella produzione di Olio d'Argan. In pratica da queste 'bacche' (che prima di essere lavorate devono passare dentro l'intestino delle capre) viene estratto un olio che ha dei benefici straordinari per la pelle. La cooperativa dà lavoro a tante donne, ed è un bel segnale in un mondo dove il "sesso debole" lo è ancora.

Poi siamo arrivati ad Essaouira, ma questa è un'altra storia. Quel che mi preme, a fronte del video, è il sapore di questo Paese, il Marocco, primitivo ma verace. Bellissima terra d'Africa del nord, che se chiudo gli occhi sento ancora il sole a picco sulla testa, e il calore che mi pervade tutto il corpo. I profumi ed i colori, le strade sabbiose, il vociare della gente, i fumi che si alzano sopra Djema el 'Fnaa; il silenzio la notte, le stelle e la luna sopra la Kotoubia.

lunedì 16 agosto 2010

Pellegrinaggio a Bonora

La mia fede ha 'sete' di momenti come quello che abbiamo vissuto ieri: il rosario iniziato sotto la Rocca di Montefiore Conca e poi concluso al Santuario della Madonna di Bonora con la Santa Messa. Non è questione di 'matrice', ma di 'verità' di quello che percepisci: e ieri è stato un momento vero, sentito, partecipato. Dai bellissimi canti al ricordo di Rita, che non conosco - comunque un esempio straordinario - dal pellegrinaggio verso il Santuario alla Messa. Con C., piano piano, in dolce attesa.


sabato 14 agosto 2010

Uomini si diventa, parola di Michael Chabon

Da quanto tempo non leggevo un libro di Michael Chabon? Stando alla lista dei libri letti negli ultimi cinque anni, direi un secolo. Accompagnando mia moglie in biblioteca, eccolo spuntare in mezzo a tanti altri volumi. Mi incuriosisce, lo sfoglio, il titolo mi acchiappa. Ho appena iniziato a leggerlo, ma già posso dire che è bellissimo. Chabon parla di sè come marito, padre, figlio, uomo in una serie di piccoli racconti legati a riflessioni o aneddoti o episodi particolari. Il titolo in italiano è 'Uomini si diventa' ma in inglese, 'Manhood for amateurs' aveva qualche cosa di più: letteralmente sarebbe 'Diventare uomini, manuale per amatori'. Bello.

lunedì 9 agosto 2010

Con questi tuoi occhi



I've seen things you people wouldn't believe. Attack ships on fire off the shoulder of Orion. I watched c-beams glitter in the dark near the Tannhauser Gate. All those moments will be lost in time, like tears in rain. Time to die.

Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da guerra in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti, andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. E' tempo di morire.


Roy Batty (Rutger Hauer) pronuncia queste parole pochi istanti prima di morire, dopo aver combattuto con Rick Deckart (Harrison Ford), poliziotto della squadra speciale Blade Runner, impegnato nel 'ritiro' dei replicanti Nexus-6 che, dalle colonie extra mondo, erano tornati sulla Terra. A spingerli in questa azione suicida era il desiderio di trovare risposta ad alcune domande che si erano posti: Chi siamo? Da dove veniamo? Quanto ci resta ancora da vivere?

I replicanti Nexus-6 erano infatti stati costruiti per lavorare sulle colonie extra mondo e, pertanto, erano dotati di particolare forza e resistenza. Gli scienziati ipotizzavano che, nonostante fossero replicanti, nel giro di breve tempo avrebbero potuto sviluppare emozioni, sentimenti. Avevano pertanto innestato in loro dei 'ricordi', per dare un supporto concreto alla propria 'coscienza' che si andava non solo risvegliando, ma formandosi. Superiori fisicamente all'uomo, per evitare 'complicazioni', erano stati dotati di un termine: dopo 4 anni dall'immissione, sarebbero 'morti'. Il loro rientro sulla Terra è un disperato tentativo di prolungare la propria vita, che hanno imparato ad amare.

Del gruppo di Nexus-6, rientrati clandestinamente sulla Terra dopo aver assaltato una nave e massacrato una trentina di passeggeri, due muoiono cercando di scavalcare una rete elettrificata che protegge il palazzo della Tyrell Corporation, il luogo dove sono stati creati. Deckart, sguinzagliato sulle tracce dei quattro replicanti superstiti, trova e uccide Zhora dopo un lungo inseguimento nella folla. Rachel, la segretaria di Tyrell, una replicante anch'essa, ("un esperimento" come rivela lo stesso Tyrell) uccide Leon mentre questi sta per massacrare Deckart.

Ne restano due: Pris, che viene uccisa da Deckart dopo un combattimento; e Roy Batty, il leader dei replicanti. Batty uccide tutti quelli che gli impediscono di arrivare a Tyrell. Di fronte al suo creatore - che chiama 'padre', in una sorta di parabola del figliol prodigo tutt'altro che redento - chiede se sia possibile tornare indietro, modificando la propria struttura, e prolungare la propria vita. Quando capisce che non vi sono speranze, lo uccide. Tornato nella casa dove aveva trovato rifugio scopre che la sua compagna Pris è morta. Qui inizia la caccia a Rick Deckart, che si concluderà con le parole ricordate all'inizio.

Durante il combattimento Batty ha la meglio. Deckart sta per precipitare nel vuoto ma il replicante, senza una spiegazione, lo salva. E muore, spegnendosi, addormentandosi, chinando il capo senza vita sotto la pioggia. Perchè l'ha salvato? Forse perchè in quel momento in cui sentiva la sua vita sfuggirgli dalle mani - come diceva la voce fuori campo (di Deckart) nel film andato nelle sale nel 1982 - amava la vita più di ogni altra cosa. Non solo la sua, quella di chiunque. E quindi anche quella di Deckart.

Il film di Ridley Scott (1982) tratto dal racconto di Philip K. Dick "Do android dream of electric sheep?" porta con sè, nella cupezza degli scenari disegnati dalla fantasia dell'autore, nell'innumerevole serie di omicidi compiuti, comunque un messaggio positivo. Indipendentemente se siamo Nexus-6 o esseri umani, la domanda sul senso della vita è presente in tutti ed è inestinguibile. E il tempo, che ci viene donato, breve o lungo che sia, deve essere impiegato al meglio. Nel suo ultimo respiro, Batty salva la vita a Deckart e, credo, si redime. Un ultimo atto di pietà e di amore, giunto alla fine del viaggio, capace di riscattare la sua breve, amara, intensa vita.

PS. Mi suggeriscono dalla regia - mia moglie - un'ipotesi davvero affascinante. E se Roy Batty, siccome sapeva che anche Deckart era un replicante, lo lascia in vita per fargli capire bene "cosa si prova a vivere nel terrore"? Ciò, ovviamente, fa cadere nel vuoto tutte le romanticherie di cui sopra. Nessuna redenzione. Nessun atto di pietà. Bensì, una vendetta in piena regola. Servita fredda. Freddissima.

venerdì 6 agosto 2010

Taschenbuch

Introduzione

Rivedo mio nonno camminare nel prato: i pantaloni beige, la camicia rosa, il cappello di paglia calcato sulla testa, all'ombra dei pini marittimi accanto al gazebo. Lo chiamo dal balcone e lui si ferma, gira e alza il capo e mi guarda, da sotto la tesa, salutandomi con la mano, sorridendo come sempre. Poi riprende la sua strada, uscendo al sole, verso l'orto, la sua passione.
E' questa l'immagine più viva, cento e cento volte vissuta, il ricordo più schietto di quest'uomo che è sempre stato mio nonno, e io per lui il primo nipote.
Fin da piccolo, ogni qual volta la sera ci si ritrvava in camera assieme, nei luoghi dove trascorrevamo le vacanze il rito della buona notte prevedeva, nell'ordine: toilette, partita a carte (alla quale non troppo volentieri si rassegnava anche la nonna), preghiera e, infine, una storia. Invariabilmente la richiesta era sempre la stessa: "Nonno, raccontami di quando eri in guerra".
Vivevo quei momenti come una grande narrazione avventurosa, non diversa dalla avventure di Zanna Bianca nel Klondike o di Tex Willer. "Dai nonno, dimmi ancora della tradotta, di quando sei saltato dal treno, e sei finito in un buco".
Sarà per questo che amo la storia, perchè quando si parla della seconda guerra mondiale, sento che mi appartiene, mi interessa, parla anche di me, delle mie radici.
Un po' di tempo fa, quando il nonno ha iniziato a perdere la memora, ho avuto paura di perdere anche parte di me ed è per questo che ho registrato la sua voce, e l'ho fatto raccontare di nuovo. E' stato così che ho incontrato il suo diario, sul cui frontespizio verde scuro è incisa la parola 'Talchenbuch' e, in corsivo, la sua firma: Angelo Belotti. Una piccola rubrica con le pagine ingiallite dove il nonno ha annotato con diligenza e precisione i dettagli della sua guerra. Non un diario postumo di ricordi, già nel mito, già traditi dalla memoria, ma una cronaca fedele e scarna di quei giorni di viaggio e fatica, di prigionia. Ma soprattutto di fame, di lotta per la sopravvivenza.
Annotava tutto, un po' a penna, un po' a matita quando l'inchiostro era esaurito, con mano ferma e stile asciutto. Dalle razioni distribuite ai soldati alla durata delle marce, alla sua reazione quando aveva saputo della morte del "caro babbo" e tornò a casa che era già stato sepolto. Un diario che è anche una testimonianza di fede, per le preghiere e le invocazioni, soprattutto alla Madonna, per aiutarlo e ricondurlo a casa. Poi, in coda al 'Talchenbuch', un elenco di nomi di compagni che, come lui, con lui, si ritrovarono in Grecia, a Rodi, a combattere una guerra che li avrebbe condotti molti alla morte, pochi al ritorno.
Un'esperienza di completa privazione dove l'uomo tornava ad essere animale, ma senza perdere la sua dignità. Indicibili sofferenze, la disidratazione, la denutrizione, il lavoro duro, la ricerca spasmodica di qualche cosa da mangiare che, puntualmente, non bastava mai, ma veniva condiviso ugualmente.
Poi Angelo perse le forze e venne rimpatriato non so come, che pesava - se mi ricordo bene - solo 37 kg. Pelle e ossa, letteralmente, fu curato all'ospedale di Bari, dove si riprese grazie all'intervento di un medico tedesco che, prigioniero, lavorava lì. Così, tornò a casa.
Prima di sposarsi ripartì, destinazione Francia, Perpignan, dove lavorò con il fratello Guido nella costruzione di strade e gallerie, dove si ammalò di silicosi, ma non gravemente; da dove tornò, questa volta per sempre.
Si sposò con Linda, nel 1951 nacque Luigi, mio padre, e nel 1961 Mario. Oggi scrivo questa storia in preda all'emozione perchè ho la consapevolezza che la mia vita, quella di mio figlio e di quello che verrà, è un miracolo. Un filo tenace che non si è spezzato e che mi ha permesso di vivere questo tempo, con Grazia e fortuna, con dolore, poco; con tanto amore. Non ci sono parole giuste per rendere merito a questa pianta inestirpabile che è la vita, l'ottimismo, la gioia di esserci e di poter dire, guardando mia moglie e mio figlio: "Ci sarò". Amando fino all'ultimo giorno questa storia, aggrappato ad un filo lanciato davanti a noi, saldamente inchiodato ad una Croce, per l'eternità.

Taschenbuch

[...]

domenica 1 agosto 2010

Lessico famigliare, che storia!

Ebbene sì questa volta ce l'ho fatta. Era dal 1998 che Lessico famigliare di Natalia Ginzburg sostava nella mia libreria. Me lo sono portato dietro, di casa in casa; talvolta l'ho anche aperto, sfogliato, richiuso accuratamente. Per almeno due volte non ho superato le pagine dei "sempiezzi" e degli "sbrodegazzie e potacci". Cosa avrebbe mai potuto dirmi una storia così personale, così particolarmente e unicamente famigliare, così poco universale?

Come accade sempre con i libri quando si presentano ostici, sono le prime pagine quelle più dure. Ti senti attratto, sai che dovrai trovarci qualche cosa per forza, ma la ricerca si prospetta lunga, faticosa. E abbandoni. Stavolta no. E non c'è stato niente di particolare ad avermi spinto a proseguire, se non il fatto che fosse il momento giusto: ed eccomi qui, 212 pagine dopo, a chiudere il libro della Ginzburg con un brivido.

La storia è semplicissima: è la cronaca della vita della famiglia Levi raccontata da Natalia, nata Levi e poi sposata Ginzburg. Si parte, pertanto, dall'infanzia: ricordi, giochi, vacanze; i genitori; gli amici dei genitori, gente un po' speciale (Casorati, Turati, per dirne un paio) che gira per casa, che si nasconde in casa; uomini e donne che hanno contato nella storia del nostro Paese, nei diversi ambiti di appartenenza. Poi, man mano che Natalia cresce, le vicende della famiglia si complicano, all'orizzonte si profila il fascismo, poi la guerra, i bombardamenti, la fine delle ostilità; la fuga da Torino, l'esilio per qualcuno.

Molte pagine sono dedicate alla nascita della casa editrice Einaudi, a Giulio Einaudi e ai vari Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Italo Balbo. La Ginzburg non scrive mai 'Einaudi' ma semplimente lo chiama "l'editore", così come la casa editrice resterà senza nome per tutto il libro. Ed è qui che il testo si fa veramente interessante, raccontando da vicino l'umanità di questi 'eroi' della letteratura, pionieri e divulgatori di cultura.

Il libro, ad ellisse, si chiude con i genitori di Natalia che discutono, per l'ennesima volta, in quel modo oramai famigliare anche al lettore:

- Tutte le domeniche - disse - andavamo dal Barbison. Le sorelle del Barbison le chiamavano le Beate, perchè erano molto bigotte. Il Barbison, il suo vero nome era Perego. I suoi amici gli avevano fatto questa poesia: 'Bello è veder di sera e di mattina / Del Perego la cà e la cantina.' - Ah non cominciamo adesso col Barbison! - disse mio padre. - Quante volte l'ho sentita contare questa storia!

Ho trovato il libro interessante per diversi motivi. Per il contenuto, specialmente nella parte in cui la storia del nostro Paese si mescola con la storia della famiglia Levi, accompagnando tutto il popolo italiano dai primi anni del secolo alla seconda guerra mondiale sino al boom economico. Per i ritratti che Natalia ha fatto delle persone che hanno incrociato la sua strada: da Pavese a Balbo, dai suoi genitori ai fratelli, al marito Leone, ricordato con scarne ed efficaci righe, ancora intrise del dolore della perdita.

Straordinario lo stile. Nelle prime pagine la Ginzburg, penna in mano, non sta ricordando la sua famiglia (cioè da adulta, gettando uno sguardo indietro nel tempo): ma si fa piccina un'altra volta e narra in diretta quello che vede con i suoi occhi. Non si comporta come un narratore onnisciente, ma come un cameraman impegnato in una presa diretta. Pagina dopo pagina, diventando grande, la Ginzburg inizia a comprendere meglio le dinamiche della propria famiglia, e quelle della storia che si sta svolgendo tutto attorno a lei.

Come lettore mi sono pertanto ritrovato a vivere cinquantanni di storia, raccontati da uno sguardo che, nel tempo, acquisisce sempre più consapevolezza. Un artificio bello e calibrato, come se aprendo le pagine di Lessico famigliare, venissimo presi per mano da bambini e, scorrendo la storia che viene narrata, ci facessimo adolescenti e adulti, divenendo parte integrante anche noi della famiglia Ginzburg, della casa editrice Einaudi, del nostro Paese. Vivendo, quasi sulla nostra pelle, cinquantanni di storia, come un brivido che lascia senza respiro.