giovedì 27 agosto 2009

E il naufragar m'è dolce a Miramare

Dal 2001 sono a Rimini, e non ho mai scritto del suo mare. Chi ci vive lo sa, il perchè. Perché il mare a Rimini non è mare. Alghe, rifiuti, acque torbide, scarichi fognari, colibatteri fecali come se piovessero. E delle cose brutte si parla a denti stretti e malvolentieri, ci si pensa su, si soffre in silenzio. E' come un caro amico che ti tradisce, come qualcosa di bello che è stato terribilmente sfigurato e mai sarà più come prima. Le mucillagini a Rimini hanno fatto il loro tempo, ma fare il bagno è un'esperienza penosa, per chi ama il mare, la bracciata ampia, l'immersione. Ciò è stato vero per me fino a quest'estate, quando quasi per caso abbiamo scoperto la spiaggia libera davanti alla Colonia Marina Bolognese - maestosamente abbandonata, ma non in rovina.

Spiaggia libera a Rimini significa skyline non antropizzato. Significa salviettoni multicolori appoggiati sulla sabbia, su brandine pieghevoli portate da casa; spiaggia libera è ombrellone fai da te, è il pranzo al sacco, è l'asimmetria dell'occupazione del suolo. Ma a Miramare c'è dell'altro. La spiaggia libera davanti alla Colonia è silenziosa, tranquilla, spaziosa. Lì l'eco della Publiphono non arriva. Lì gli extracomunitari non si avventurano quasi mai, perchè non ci sono abbastanza potenziali clienti. Questo lembo di spiaggia gode di uno status da apolide: zona di confine tra Rimini e Riccione, ancora non investita da piani regolatori, da progetti di riqualificazione; dimenticata dalla pubblica amministrazione. Un paradiso naturale, e pulito. C'è il bagnino, uno solo, che osserva il mare e chiacchiera. Ogni tanto esce in mare. Ci sono le famiglie. Ci sono gli amici, gli amanti, i gay, qualche turista che ha perso la strada di Marina Centro o di Riccione. Tutti in pacifica convivenza, a sentire il sole sulla pelle, a leggere nel silenzio, a giocare. Un luogo così grande che tutti godono di un'ampio spazio vitale: si può stare stretti stretti, ci si può isolare. Si può scegliere. Una doccia ed una fontana, all'imboccatura di un viale che conduce alla strada litoranea; un paio di bar a distanza di sicurezza - che prima di andare a prendere un caffè o un ghiacciolo ci pensi non due, ma tre volte; la postazione del bagnino, al centro esatto della spiaggia.

E poi c'è il mare. Trasparente, pulito, in alcuni punti pieno di pesci (verso l'imboccatura del Marano, soprattutto). E allora entri in acqua e fai pace con le onde, con il cielo, con la schiuma che lambisce la spiaggia. Poi ti butti e nuoti, nuoti senza timore di andare a sbattere contro un turista, contro un palo, contro un moscone, contro un bambino che gioca, contro un pedalò. Nuoti e l'acqua continua ad essere pulita, e ti chiedi se sei ancora a Rimini. E non ci credi. E pensi che sei fortunato a stare lì. E anche la mia compagna, che ho visto si e no fare il bagno in mare solo a Positano, Ischia, Mauritius e basta, timidamente e poi senza paura si immerge a fare il bagno.

Continua ad esserci silenzio, tutto intorno. La giornata si muove e il sole passa sopra la tua testa e scende lentamente dietro la Colonia Marina Bolognese. Non so niente di lei, ma è bellissima. Imponente, chiusa da un muretto e recintata. Le finestre sono cadute in pezzi, le tapparelle andate in rovina, abbandonate su se stesse. Ma i mattoni sono rossi, la geometria delle architetture ancora solenne e integra. Ho immaginato un bel recupero, poi ho pensato: No, no, che cavolo! Deve restare così. Via il cemento, via i centri commerciali, via gli appartamenti. Via l'antropizzazione, che non ha più niente a che fare con la sua etimologia greca - con l'uomo.

Tutto intorno alla Colonia - che consta di sette diversi edifici collegati da corridoi con arcate attraverso le quali si intravede il cielo blu, ed il contrasto è sorprendente - ci sono terreni incolti. Ma il prossimo ripristino della Colonia Marina Novarese non lascia presagire niente di buono. Ci faranno un cinque stelle, collegato con il talassoterapico lì di fronte. E allora, arriveranno gli ombrelloni, arriveranno i turisti, arriveranno gli stabilimenti balneari, i ristoranti e i bar. Arriverà il turismo di massa, e magari impianteranno anche i pali con gli altoparlanti della Publiphono. E questo relitto che è la Bolognese diventerà albergo o shopping centre o centro multifunzionale. Mi raccomando Rimini: mai un museo, mai una galleria di arte contemporanea, mai un centro culturale. Dove ci sono campi incolti, Rimini, non fare giardini o parchi attrezzati. Non fare oasi ecologiche. Rimini, non fare ciò che non sai e non vuoi fare: ma butta cemento e copri tutto. Costruisci, edifica, riempi, riempi gli spazi vuoti, riempiti le tasche.

Noi quest'estate, comunque vada, abbiamo fatto pace con il mare, e anche con Rimini. Che mi sono quasi innamorato di lei. Ci andiamo più che possiamo, senza fretta, senza stress, sperando che l'estate non finisca mai, opponendo un fiero "cazzeggio" al mondo del lavoro e delle relazioni obbligate che premono per entrare nel nostro spazio vitale, così delicato, ancora così fragile. Noi continuiamo a caricare l'auto e ci dirigiamo verso Miramare. Troviamo anche parcheggio facilmente, gratis, sulla via Teramo. Poi attraversiamo la strada e tutto scompare, ogni cosa torna a dimensione d'uomo. Ci immergiamo nel sole, nella natura, e il mare ci sta davanti, e la Bolognese ci nasconde dal caos là fuori. Tutto diventa lento e bellissimo. Che non sembra neanche di stare a Rimini.

martedì 25 agosto 2009

Marrakech #1

Più che una vacanza, un'esperienza di vita. Un viaggio, vissuto finalmente da viaggiatori e non da turisti. Tutto ciò che è Europa non esiste a Marrakech, siamo in un altro mondo. Si parla arabo e francese. Noi solo italiano e inglese. Al limite della incomunicabilità. La nostra cultura, la nostra educazione, la nostra testa: niente di questo era necessario, a Marrakech. Per sopravvivere, orientarci, capire, entrare dentro questo popolo, abbiamo dovuto usare il cuore, l'emozione, l'irrazionale, l'improvvisazione, l'astuzia, modi nuovi di essere. Abbiamo dovuto sollecitare 'muscoli' che non eravamo più abituati ad usare. Ma che piano piano si sono risvegliati.

Siamo arrivati che picchiava il sole, a 50 gradi, e faceva caldo anche per loro. Con un taxi-van siamo arrivati sino alle mura esterne della Medina, il centro storico di Marrakech. Lì un uomo ha caricato le valigie su un carretto e ci ha scortati sino al riad dove avremmo soggiornato, il Dar Attajmil, che nella loro lingua significa: "qualcosa di meraviglioso". Le mura delle abitazioni della Medina sono tutte rosate, uguali, irregolari. Le strade sinuose, storte, sghembe, polverose. E' stato facile accorgersi della povertà, della sporcizia. E' stato bello poter incontrare la bellezza.

Come nella Medersa Ben Youssef (foto qui accanto), un'antica scuola coranica, dove i ricchi avevano le stanze con la vista sul patio. I meno abbienti, invece, se ne stavano in stanze con un buco per la luce e per l'aria. Una persona, un arabo un po' malmesso in uno stentato inglese, ci ha chiesto se volevamo ci facesse da guida, e ci ha detto che lui trent'anni prima, aveva studiato lì. "No, merci". No, grazie. Abbiamo fatto da soli. Perchè a Marrakech tutti ti offrono qualcosa, e la tua gentilezza, il tuo 'urbanesimo' europeo, capisci presto che è fuori luogo, altrimenti dopo una sola giornata potresti ritrovarti senza un Dirham in tasca. Tutti ti chiedono se hai bisogno di qualcosa, tutti vogliono venderti qualcosa, tutti ti vogliono portare da qualche parte. E tu, gentilmente, ascolti tutti, per non offendere nessuno. Ma dopo poche ore hai già capito, che qui, non devi ascoltare nessuno. Guardare avanti senza incrociare lo sguardo di nessuno, perchè la domanda, la richiesta, l'offerta è sempre in agguato. Sei europeo, ce l'hai scritto in faccia e nei vestiti. Poi, dopo qualche giorno, il caldo ed il sole, ti hanno trasformato la pelle in un abitante del nord Africa. Ma non basta per mimetizzarti.

Raccontare Marrakech dopo averla vista e vissuta, anche solo per pochi giorni, è impossibile. Restano tante suggestioni, tante immagini. Se devo sceglierne due per rappresentare le contraddizioni di un mondo che divide nettamente ciò che è fuori (strade, piazze, lavoro, mercati) da ciò che è dentro (riad, hammam, burqua - per altro molto pochi), non ho dubbi. La prima è l'istantanea di un bimbo di due/tre anni che, vestito solo del suo pannolone, se ne stava lungo una strada polverosa con in mano un pezzo di vetro molto grande, raccolto da una specie di bidone dell'immondizia. Noi stavamo seguendo una 'guida' che non sapevamo dove ci stesse portando. All'improvviso è apparso il bambino e poco dopo il vetro gli è caduto di mano, terminando la sua corsa a pochi centimetri dai suoi piedi. La nostra guida gli ha detto qualcosa, ma non ha raccolto il vetro. Poi una donna si è affacciata da dietro una grata di una finestra posta molto in alto. Il bambino era sporco, era solo, aveva in mano un vetro rotto. E ho capito che in Africa, gli angeli custodi devono lavorare molto di più che da noi, in Europa.

L'altra immagine è abbinata al canto del muezzin. Verso la metà del pomeriggio ci siamo trovati nel Palazzo di Bahia (a destra, foto di interno), antica dimora dei principi e dei re del Marocco. La bellezza del palazzo è straordinaria e nonostante il tentativo di curare questo stroardinario sito storico-artistico, non sfuggono i mosaici divorati dal tempo e dai turisti che se li portano via come souvenir. Alcune zone del palazzo sono transennate - si fa per dire - e non accessibili. Il legno intarsiato è in alcuni punti talmente consunto da sembrare lì da millenni. Poi, nel caldo atroce di quel pomeriggio, con il sole a picco sulla testa, mentre attraverso un patio enorme e deserto, con una fontana senz'acqua in mezzo, inizia il canto del muezzin. E ho intuito cosa è Islam. La sua potenza. Una forza, quel canto, che mi ha fatto rabbrividire. Il mormorio del muezzin, cinque volte al giorno, ricorda a tutto il mondo arabo, che "Allah è grande, Allah è grande". Mi manca, quel canto, qui, in Italia. Dove le campane delle chiese al massimo suonano per dirci che ore sono. O dove le bandiere - che in Marocco, ma anche in Danimarca, negli Usa, persino in Grecia - sventolano solo negli stadi.

Ci sono ancora tante suggestioni, di cui vorrò scrivere: i suq, la gente, il cibo, le scoperte e gli smarrimenti, la contrattazione, la gentilezza di alcuni arabi, il bagno turco, l'hammam, la pace, i colori, il deserto. Ma il sapore più pregnante che mi sono portato a casa è stato quello del tè alla menta. In pratica, come le chewing-gum Brooklyn alla clorofilla. Servito bollente, con le foglioline di menta in infusione, questa bevanda ha accompagnato tutta la nostra vacanza. E' stato il primo e l'ultimo gesto del nostro viaggio. All'inizio è stato il ragazzo del riad Dar Attajmil ad offrircelo. Stanchi del viaggio, impolverati, accaldati, affamati, sudati, ci ha fatto accomodare in una stanza che dava sul patio. Abbiamo atteso trenta minuti. Poi è arrivato il tè. E la nostra 'fretta' europea era già scomparsa. Il ritmo, rallentato. Abbiamo iniziato a sfogliare cataloghi, libri, a sentire che c'era una musica che proveniva da una radio. Poi abbiamo notato gli arazzi, i tappeti, il tavolino, ammirato i cuscini. Visto il gigantesco banano che si trova proprio nel centro del patio. E sopra il banano il cielo. Il nostro tè alla menta, il primo, è stato meraviglioso. La sera, era l'ultima sera, ce lo siamo fatti portare e l'abbiamo bevuto piano. Anche a casa ce lo stiamo facendo, ogni tanto. Ma, come si dice, ed è proprio così: non è la stessa cosa. Ah, Marrakech!