martedì 31 agosto 2010

Pampeago, ovvero: quello che volevo veramente scrivere l'ultima che ho postato qualcosa sul blog, ma che non ho avuto il coraggio di fare

Già, quello che volevo veramente scrivere è che sono stato bene, a Pampeago. Che è un luogo fatto di tre alberghi per sciatori, due impianti di risalita, un negozio e quattro parcheggi, vicino a Tesero, in Val di Fiemme (A22 uscita Egna-Ora; direzione Val di Fiemme; dopo Cavalese si sale sulla sinistra per Stava e poi si arriva all'Alpe di Pampeago). L'albergo - che non nominerò per senso pietistico - ha rappresentato tutto ciò che non deve essere un albergo, per cui tralascio volentieri ogni commento.

Al di là delle escursioni, dei pasti consumati in alcune ottime malghe, ciò che mi ha veramente colpito è stato il silenzio assoluto, sentito in alcune particolari occasioni. Ero sulla seggiovia con Cinzia e Matteo e, tra un pilone e l'altro, con il sole che illuminava la vallata e la vetta, e faceva risaltare ogni colore che Dio aveva messo su quella parte di terra che si mostrava ai miei occhi, abbiamo ascoltato il nulla, il vuoto. Neanche un ronzio, non una parola, non un rumore in lontananza. Niente di niente. Anche il respiro sembrava essersi fermato. E via a pensare alla città, ai rumori di sottofondo che non ti lasciano mai solo e che accompagnano la tua vita. Ovunque, dappertutto.

Per questo amo la montagna, perchè mi sembra di poter avere uno sguardo pulito e sincero sul mondo, perchè riesco a percepirmi sottilmente, interiormente, parte del tutto che mi circonda. Perchè riesco a parlare sottovoce e a farmi sentire, senza dover gridare o alzare i toni. La sera, un paio di volte, io e Matteo ci siamo messi sulla veranda, con la coperta tirata su fin sotto il mento, a guardare la luna e le stelle. Nessun lampione, nessuna casa illuminata, nessuna automobile. Anche l'albergo era 'spento', eppure illuminato in parte dalla luce della notte. Bellissime notti luminose.

Un po' di pace, ogni tanto, ci vuole. Rientrato, sbalordito dagli stimoli che ricevo ogni giorno, ho passato la prima giornata in assoluto stordimento. Poi mi sono ripreso, e ho ricominciato a macinare posta elettronica, telefonate e giornali. Stendermi sull'erba, guardare il cielo e le nuvole che si muovono, non percepire nulla se non l'azzurro e il bianco, e il verde e il grigio. Come se gli occhi fossero una finestra, da cui guardare l'infinito, ciò che di 'basico' esiste da sempre in natura. Insuperato.

Le fotografie che corredano questo articolo sono, in ordine di apparizione: n.1: © re.bel; n.2 e 3: © cinzia t.

lunedì 30 agosto 2010

Wonder Michael Chabon, or not

Ho incontrato Michael Chabon al Festivaletteratura di Mantova sabato 8 settembre 2001, alle 18.45, presso il Museo Diocesano. Era presentato da Beppe Severgnini, che scherzò molto sul fatto che gli avevano messo accanto - a lui basso, grigio e 'storto' - questo americano sano, alto, forte, bello. Mi feci anche autografare qualche cosa, che adesso non trovo più. Tre giorni dopo, crollarono le torri gemelle e ci scrivemmo alcune e-mail a proposito.

L'avevo scoperto leggendo Wonder Boys, perchè mi era piaciuto molto il film con Michael Douglas, Robert Downey Jr. e Tobey Maguire. Il libro era ben scritto, divertente, profondo: caratteristiche che ho ritrovato anche nelle Fantastiche avventure di Kavalier & Clay, che forse presentava proprio a Mantova.

Ho da poco invece terminato Uomini si diventa: un bel libro di racconti in cui Michael narra il suo essere figlio, padre (4 volte) e marito (2 volte), aprendo la scatola dei ricordi e il suo cuore con estrema sincerità. E' qui che mi sono trovato a riflettere se sia giusto o meno che uno stimato scrittore di successo metta in piazza molto di sè, soprattutto certi aspetti della propria vita - consumo di droghe leggere, per esempio - che non condivido. Non tanto perchè "non si deve mai fare" o "non avrebbe dovuto provare certe esperienze", ma perchè mi metto volentieri nei panni di un lettore - o del padre di un lettore giovane - che scorrendo le righe dei suoi racconti, incontra spesso e volentieri il tema delle droghe leggere, consumate - appunto - con leggerezza. Non mi sembra di aver letto un mea culpa dovuto alla maturità, anzi: sembra di capire che Chabon ne faccia ancora uso (ed è sacrosanta la sua libertà di fare ciò che vuole, nel rispetto della libertà altrui, s'intende: ma Chabon secondo me - e con lui tanti altri - dovrebbe riflettere sul fatto che, essendo bello, famoso, felice e di successo - tutto meritato, sinceramente - da molti è additato come un 'esempio'.)

Detto questo - e chi sa a chi frega di queste righe moraleggianti, ma tant'è: dovevo scaricarmi la coscienza - il libro è bellissimo. Ci sono passaggi importanti, profondi, altri un po' meno interessanti forse per la lontananza del suo dal mio vissuto. Chabon parla del tempo che scorre, dell'essere diventato uomo. Ricorda la sua prima moglie, gli errori commessi, i momenti di straordinaria e ordinaria intensità della sua grande famiglia a 6 posti. Ma la cosa migliore da fare è leggerlo per capire quanto della sua vita sia condivisibile da tanti, instaurando così una fraternità - piuttosto che un cameratismo - che aiuta a capire meglio anche se stessi.

Beninteso, non è un libro per soli uomini, nonostante il titolo, perchè anche le donne possono leggerlo e gustarlo - io ho letto tanti brani anche a mia moglie - per avvicinarsi di più al nostro universo. Dopo Philip Roth e Jonathan Franzen - per dirne alcuni - prosegue, nell'ambito della letteratura americana, la fase dell'introspezione, della 'prima persona singolare': un momento in cui sembra quasi che gli autori abbiano voluto fermarsi a guardarsi dentro, per fare il punto su di sè. Un recupero della memoria, che forse è solo una coincidenza, frutto di letture incontrate casualmente. Ma se il caso non esiste?
Da tempo sento anche io, prepotentemente, il bisogno di essere in 'prima persona', e spero che ne venga fuori qualche cosa, prima o poi.

mercoledì 18 agosto 2010

Libero chi legge

di Fernanda Pivano*

E' stato mio padre a insegnarmi l'amore per i libri. Ero poco più di una bambina ma ogni sabato pomeriggio mi accompagnava nella sua preziosa biblioteca di diecimila volumi e con una piccola cerimonia di un quarto d'ora ne sceglieva uno tra quelli di Fedor Dostoevskij, Lev Tolstoj e Anton Cechov, Gustave Flaubert e Guy de Maupassant, Thomas Mann e Alfred Doblin, Ljos Zilahy e Ferenc Kormendi (alla moda in quel momento), o della prosa d'arte italiana come per esempio America amara di Emilio Cecchi. Mi spiegava che cos'era e mi chiedeva cosa ne pensavo del libro che mi aveva dato il sabato prima.

Mi faceva leggere anche una minuscola rivista arrivata nelle sue mani per le vie dell'antifascismo, "La cultura", di cui aveva conservato le copie dei primi anni Trenta e dove Cesare Pavese aveva scritto articoli su Sherwood Anderson e John Don Passos, e soprattutto Edgar Lee Master: articoli che, in quel clima di "autarchia culturale", mi avevano aiutato a respingere il "principio di italianità" e a rivolgermi alla "plutocrazia decadente" e alla "democrazia giudaico-massonica" quali venivano definite le civiltà anglosassoni.

E' stato ancora lui a regalarmi la prima copia di Moby Dick, tradotto da Cesare Pavese nel 1932 e pubblicato dall'antica Frassinelli, gloria dell'editoria antifascista torinese. Quello stesso Cesare Pavese sarebbe stato il mio supplente di italiano al liceo Massimo D'Azeglio di Torino. Nelle sue lezioni ci parlava di Francesco De Sanctis e Benedetto Croce; un giorno sono tornata a casa e ho chiesto a mio padre, che si faceva chiamare babbo, se conosceva questi autori. E lui, senza dire niente, mi ha accompagnato nella sua biblioteca e mi ha fatto vedere i loro libri. Avreste dovuto vedere la faccia di quell'insolito professor Pavese quando il giorno dopo li ho portati in aula. Pavese l'ho rivisto nel 1938, dopo il suo confino in Calabria. E' stato lui a farmi capire la differenza tra letteratura europea e letteratura americana, allora sconosciuta in Italia.

Nel 1941 Franklin Delano Roosvelt ha fatto il famoso discorso sulle quattro libertà: libertà di parola, di culto, dal bisogno e dalla paura. La libertà è a tutti i livelli: non avere paura, essere
liberi, senza dittature. Questa era la base del sogno americano e della sua letteratura; la letteratura di cui mi sono innamorata. Per me l'America rappresentava la libertà in un periodo in cui la libertà in Italia non c'era. Infatti poco dopo è scoppiata la guerra, e con la mia famiglia siamo stati costretti a sfollare a Mondovì, in un albergo presidiato dai nazisti. In quella stanza minuscola ho tradotto L'ultimo dei Mohicani di James Fenimore Cooper con mia madre che mi aiutava alla macchina da scrivere. Sognavo che Uncas arrivasse a liberarci.

Avevo già tradotto l'Antologia di Spoon River e da allora ho tradotto numerosi altri libri con la speranza di farli conoscere in Italia. Credo che non avrei potuto fare altro perchè questa è la mia passione. Quando la libertà è arrivata anche nel nostro Paese, sono andata in America per cercare uno a uno quegli autori non ancora famosi tra noi, perchè per me è fondamentale sapere chi è lo scrittore, chi frequenta, da dove viene: perchè ha scritto quello che ha scritto. Tutti i miei testi sono soltanto lettere d'amore; se scuotono dall'indifferenza qualcuno e lo inducono a interessarsi ad almeno uno dei libri descritti e al loro autore hanno raggiunto il loro scopo.

Oggi, molti, troppi anni dopo, ringrazio tutti gli autori americani che ho amato e dico anche a voi di ringraziarli, uno a uno. Tutte le volte che fate l'amore con un ragazzo che non è vostro marito, o con una ragazza che non è vostra moglie, dite grazie a Ernest Hemingway, a Jack Kerouac, a Gregory Corso. Dite grazie ai miei amici scrittori. E per farlo leggete i loro libri che sostengono la non corruzione, la non paura, la non violenza: che sostengono la libertà.

*Introduzione a "Libero chi legge" (2010, Mondadori), volume che raccoglie le 'lettere d'amore' di Fernanda Pivano (18 luglio 1917-18 agosto 2009) ai 'suoi' autori americani.

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Nanda, the Victorian-Beat girl
Intervista di Giulia Santerini a Fernanda Pivano

martedì 17 agosto 2010

Marrakech #2



Questo video non rende bene, ma quasi. Era il 4 agosto 2009 e lasciavamo Marrakech per scoprire Essaouira, città portoghese sulle rive dell'Atlantico. Siamo partiti alle 8 dal centro cittadino, appena fuori le mura. Dopo 15 minuti, ma forse nemmeno, ecco il paesaggio che si delineava ai nostri occhi dai finestrini dell'autobus. Una landa piatta, desolata, popolata da fantasmi di abitazioni, di uomini, di bestiame. La strada era arroventata dal sole e di difficile percorrenza a causa dei lavori in corso. Il rumore di sottofondo del video, girato con una macchina fotografica digitale 'antica', è forse il commento sonoro migliore.

E' stato come essere sospesi su un mondo durissimo, affascinante, che si svolgeva davanti ai nostri occhi. Uno spettacolo terribile e bellissimo, di rocce, sassi spezzati e irregolari, vetture arrugginite, operai, armenti in cerca di qualche ciuffo giallo di erba.

Sulla strada per Essaouira ci siamo fermati a visitare una cooperativa di sole donne impegnate nella produzione di Olio d'Argan. In pratica da queste 'bacche' (che prima di essere lavorate devono passare dentro l'intestino delle capre) viene estratto un olio che ha dei benefici straordinari per la pelle. La cooperativa dà lavoro a tante donne, ed è un bel segnale in un mondo dove il "sesso debole" lo è ancora.

Poi siamo arrivati ad Essaouira, ma questa è un'altra storia. Quel che mi preme, a fronte del video, è il sapore di questo Paese, il Marocco, primitivo ma verace. Bellissima terra d'Africa del nord, che se chiudo gli occhi sento ancora il sole a picco sulla testa, e il calore che mi pervade tutto il corpo. I profumi ed i colori, le strade sabbiose, il vociare della gente, i fumi che si alzano sopra Djema el 'Fnaa; il silenzio la notte, le stelle e la luna sopra la Kotoubia.

lunedì 16 agosto 2010

Pellegrinaggio a Bonora

La mia fede ha 'sete' di momenti come quello che abbiamo vissuto ieri: il rosario iniziato sotto la Rocca di Montefiore Conca e poi concluso al Santuario della Madonna di Bonora con la Santa Messa. Non è questione di 'matrice', ma di 'verità' di quello che percepisci: e ieri è stato un momento vero, sentito, partecipato. Dai bellissimi canti al ricordo di Rita, che non conosco - comunque un esempio straordinario - dal pellegrinaggio verso il Santuario alla Messa. Con C., piano piano, in dolce attesa.


sabato 14 agosto 2010

Uomini si diventa, parola di Michael Chabon

Da quanto tempo non leggevo un libro di Michael Chabon? Stando alla lista dei libri letti negli ultimi cinque anni, direi un secolo. Accompagnando mia moglie in biblioteca, eccolo spuntare in mezzo a tanti altri volumi. Mi incuriosisce, lo sfoglio, il titolo mi acchiappa. Ho appena iniziato a leggerlo, ma già posso dire che è bellissimo. Chabon parla di sè come marito, padre, figlio, uomo in una serie di piccoli racconti legati a riflessioni o aneddoti o episodi particolari. Il titolo in italiano è 'Uomini si diventa' ma in inglese, 'Manhood for amateurs' aveva qualche cosa di più: letteralmente sarebbe 'Diventare uomini, manuale per amatori'. Bello.

lunedì 9 agosto 2010

Con questi tuoi occhi



I've seen things you people wouldn't believe. Attack ships on fire off the shoulder of Orion. I watched c-beams glitter in the dark near the Tannhauser Gate. All those moments will be lost in time, like tears in rain. Time to die.

Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da guerra in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti, andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. E' tempo di morire.


Roy Batty (Rutger Hauer) pronuncia queste parole pochi istanti prima di morire, dopo aver combattuto con Rick Deckart (Harrison Ford), poliziotto della squadra speciale Blade Runner, impegnato nel 'ritiro' dei replicanti Nexus-6 che, dalle colonie extra mondo, erano tornati sulla Terra. A spingerli in questa azione suicida era il desiderio di trovare risposta ad alcune domande che si erano posti: Chi siamo? Da dove veniamo? Quanto ci resta ancora da vivere?

I replicanti Nexus-6 erano infatti stati costruiti per lavorare sulle colonie extra mondo e, pertanto, erano dotati di particolare forza e resistenza. Gli scienziati ipotizzavano che, nonostante fossero replicanti, nel giro di breve tempo avrebbero potuto sviluppare emozioni, sentimenti. Avevano pertanto innestato in loro dei 'ricordi', per dare un supporto concreto alla propria 'coscienza' che si andava non solo risvegliando, ma formandosi. Superiori fisicamente all'uomo, per evitare 'complicazioni', erano stati dotati di un termine: dopo 4 anni dall'immissione, sarebbero 'morti'. Il loro rientro sulla Terra è un disperato tentativo di prolungare la propria vita, che hanno imparato ad amare.

Del gruppo di Nexus-6, rientrati clandestinamente sulla Terra dopo aver assaltato una nave e massacrato una trentina di passeggeri, due muoiono cercando di scavalcare una rete elettrificata che protegge il palazzo della Tyrell Corporation, il luogo dove sono stati creati. Deckart, sguinzagliato sulle tracce dei quattro replicanti superstiti, trova e uccide Zhora dopo un lungo inseguimento nella folla. Rachel, la segretaria di Tyrell, una replicante anch'essa, ("un esperimento" come rivela lo stesso Tyrell) uccide Leon mentre questi sta per massacrare Deckart.

Ne restano due: Pris, che viene uccisa da Deckart dopo un combattimento; e Roy Batty, il leader dei replicanti. Batty uccide tutti quelli che gli impediscono di arrivare a Tyrell. Di fronte al suo creatore - che chiama 'padre', in una sorta di parabola del figliol prodigo tutt'altro che redento - chiede se sia possibile tornare indietro, modificando la propria struttura, e prolungare la propria vita. Quando capisce che non vi sono speranze, lo uccide. Tornato nella casa dove aveva trovato rifugio scopre che la sua compagna Pris è morta. Qui inizia la caccia a Rick Deckart, che si concluderà con le parole ricordate all'inizio.

Durante il combattimento Batty ha la meglio. Deckart sta per precipitare nel vuoto ma il replicante, senza una spiegazione, lo salva. E muore, spegnendosi, addormentandosi, chinando il capo senza vita sotto la pioggia. Perchè l'ha salvato? Forse perchè in quel momento in cui sentiva la sua vita sfuggirgli dalle mani - come diceva la voce fuori campo (di Deckart) nel film andato nelle sale nel 1982 - amava la vita più di ogni altra cosa. Non solo la sua, quella di chiunque. E quindi anche quella di Deckart.

Il film di Ridley Scott (1982) tratto dal racconto di Philip K. Dick "Do android dream of electric sheep?" porta con sè, nella cupezza degli scenari disegnati dalla fantasia dell'autore, nell'innumerevole serie di omicidi compiuti, comunque un messaggio positivo. Indipendentemente se siamo Nexus-6 o esseri umani, la domanda sul senso della vita è presente in tutti ed è inestinguibile. E il tempo, che ci viene donato, breve o lungo che sia, deve essere impiegato al meglio. Nel suo ultimo respiro, Batty salva la vita a Deckart e, credo, si redime. Un ultimo atto di pietà e di amore, giunto alla fine del viaggio, capace di riscattare la sua breve, amara, intensa vita.

PS. Mi suggeriscono dalla regia - mia moglie - un'ipotesi davvero affascinante. E se Roy Batty, siccome sapeva che anche Deckart era un replicante, lo lascia in vita per fargli capire bene "cosa si prova a vivere nel terrore"? Ciò, ovviamente, fa cadere nel vuoto tutte le romanticherie di cui sopra. Nessuna redenzione. Nessun atto di pietà. Bensì, una vendetta in piena regola. Servita fredda. Freddissima.

venerdì 6 agosto 2010

Taschenbuch

Introduzione

Rivedo mio nonno camminare nel prato: i pantaloni beige, la camicia rosa, il cappello di paglia calcato sulla testa, all'ombra dei pini marittimi accanto al gazebo. Lo chiamo dal balcone e lui si ferma, gira e alza il capo e mi guarda, da sotto la tesa, salutandomi con la mano, sorridendo come sempre. Poi riprende la sua strada, uscendo al sole, verso l'orto, la sua passione.
E' questa l'immagine più viva, cento e cento volte vissuta, il ricordo più schietto di quest'uomo che è sempre stato mio nonno, e io per lui il primo nipote.
Fin da piccolo, ogni qual volta la sera ci si ritrvava in camera assieme, nei luoghi dove trascorrevamo le vacanze il rito della buona notte prevedeva, nell'ordine: toilette, partita a carte (alla quale non troppo volentieri si rassegnava anche la nonna), preghiera e, infine, una storia. Invariabilmente la richiesta era sempre la stessa: "Nonno, raccontami di quando eri in guerra".
Vivevo quei momenti come una grande narrazione avventurosa, non diversa dalla avventure di Zanna Bianca nel Klondike o di Tex Willer. "Dai nonno, dimmi ancora della tradotta, di quando sei saltato dal treno, e sei finito in un buco".
Sarà per questo che amo la storia, perchè quando si parla della seconda guerra mondiale, sento che mi appartiene, mi interessa, parla anche di me, delle mie radici.
Un po' di tempo fa, quando il nonno ha iniziato a perdere la memora, ho avuto paura di perdere anche parte di me ed è per questo che ho registrato la sua voce, e l'ho fatto raccontare di nuovo. E' stato così che ho incontrato il suo diario, sul cui frontespizio verde scuro è incisa la parola 'Talchenbuch' e, in corsivo, la sua firma: Angelo Belotti. Una piccola rubrica con le pagine ingiallite dove il nonno ha annotato con diligenza e precisione i dettagli della sua guerra. Non un diario postumo di ricordi, già nel mito, già traditi dalla memoria, ma una cronaca fedele e scarna di quei giorni di viaggio e fatica, di prigionia. Ma soprattutto di fame, di lotta per la sopravvivenza.
Annotava tutto, un po' a penna, un po' a matita quando l'inchiostro era esaurito, con mano ferma e stile asciutto. Dalle razioni distribuite ai soldati alla durata delle marce, alla sua reazione quando aveva saputo della morte del "caro babbo" e tornò a casa che era già stato sepolto. Un diario che è anche una testimonianza di fede, per le preghiere e le invocazioni, soprattutto alla Madonna, per aiutarlo e ricondurlo a casa. Poi, in coda al 'Talchenbuch', un elenco di nomi di compagni che, come lui, con lui, si ritrovarono in Grecia, a Rodi, a combattere una guerra che li avrebbe condotti molti alla morte, pochi al ritorno.
Un'esperienza di completa privazione dove l'uomo tornava ad essere animale, ma senza perdere la sua dignità. Indicibili sofferenze, la disidratazione, la denutrizione, il lavoro duro, la ricerca spasmodica di qualche cosa da mangiare che, puntualmente, non bastava mai, ma veniva condiviso ugualmente.
Poi Angelo perse le forze e venne rimpatriato non so come, che pesava - se mi ricordo bene - solo 37 kg. Pelle e ossa, letteralmente, fu curato all'ospedale di Bari, dove si riprese grazie all'intervento di un medico tedesco che, prigioniero, lavorava lì. Così, tornò a casa.
Prima di sposarsi ripartì, destinazione Francia, Perpignan, dove lavorò con il fratello Guido nella costruzione di strade e gallerie, dove si ammalò di silicosi, ma non gravemente; da dove tornò, questa volta per sempre.
Si sposò con Linda, nel 1951 nacque Luigi, mio padre, e nel 1961 Mario. Oggi scrivo questa storia in preda all'emozione perchè ho la consapevolezza che la mia vita, quella di mio figlio e di quello che verrà, è un miracolo. Un filo tenace che non si è spezzato e che mi ha permesso di vivere questo tempo, con Grazia e fortuna, con dolore, poco; con tanto amore. Non ci sono parole giuste per rendere merito a questa pianta inestirpabile che è la vita, l'ottimismo, la gioia di esserci e di poter dire, guardando mia moglie e mio figlio: "Ci sarò". Amando fino all'ultimo giorno questa storia, aggrappato ad un filo lanciato davanti a noi, saldamente inchiodato ad una Croce, per l'eternità.

Taschenbuch

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domenica 1 agosto 2010

Lessico famigliare, che storia!

Ebbene sì questa volta ce l'ho fatta. Era dal 1998 che Lessico famigliare di Natalia Ginzburg sostava nella mia libreria. Me lo sono portato dietro, di casa in casa; talvolta l'ho anche aperto, sfogliato, richiuso accuratamente. Per almeno due volte non ho superato le pagine dei "sempiezzi" e degli "sbrodegazzie e potacci". Cosa avrebbe mai potuto dirmi una storia così personale, così particolarmente e unicamente famigliare, così poco universale?

Come accade sempre con i libri quando si presentano ostici, sono le prime pagine quelle più dure. Ti senti attratto, sai che dovrai trovarci qualche cosa per forza, ma la ricerca si prospetta lunga, faticosa. E abbandoni. Stavolta no. E non c'è stato niente di particolare ad avermi spinto a proseguire, se non il fatto che fosse il momento giusto: ed eccomi qui, 212 pagine dopo, a chiudere il libro della Ginzburg con un brivido.

La storia è semplicissima: è la cronaca della vita della famiglia Levi raccontata da Natalia, nata Levi e poi sposata Ginzburg. Si parte, pertanto, dall'infanzia: ricordi, giochi, vacanze; i genitori; gli amici dei genitori, gente un po' speciale (Casorati, Turati, per dirne un paio) che gira per casa, che si nasconde in casa; uomini e donne che hanno contato nella storia del nostro Paese, nei diversi ambiti di appartenenza. Poi, man mano che Natalia cresce, le vicende della famiglia si complicano, all'orizzonte si profila il fascismo, poi la guerra, i bombardamenti, la fine delle ostilità; la fuga da Torino, l'esilio per qualcuno.

Molte pagine sono dedicate alla nascita della casa editrice Einaudi, a Giulio Einaudi e ai vari Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Italo Balbo. La Ginzburg non scrive mai 'Einaudi' ma semplimente lo chiama "l'editore", così come la casa editrice resterà senza nome per tutto il libro. Ed è qui che il testo si fa veramente interessante, raccontando da vicino l'umanità di questi 'eroi' della letteratura, pionieri e divulgatori di cultura.

Il libro, ad ellisse, si chiude con i genitori di Natalia che discutono, per l'ennesima volta, in quel modo oramai famigliare anche al lettore:

- Tutte le domeniche - disse - andavamo dal Barbison. Le sorelle del Barbison le chiamavano le Beate, perchè erano molto bigotte. Il Barbison, il suo vero nome era Perego. I suoi amici gli avevano fatto questa poesia: 'Bello è veder di sera e di mattina / Del Perego la cà e la cantina.' - Ah non cominciamo adesso col Barbison! - disse mio padre. - Quante volte l'ho sentita contare questa storia!

Ho trovato il libro interessante per diversi motivi. Per il contenuto, specialmente nella parte in cui la storia del nostro Paese si mescola con la storia della famiglia Levi, accompagnando tutto il popolo italiano dai primi anni del secolo alla seconda guerra mondiale sino al boom economico. Per i ritratti che Natalia ha fatto delle persone che hanno incrociato la sua strada: da Pavese a Balbo, dai suoi genitori ai fratelli, al marito Leone, ricordato con scarne ed efficaci righe, ancora intrise del dolore della perdita.

Straordinario lo stile. Nelle prime pagine la Ginzburg, penna in mano, non sta ricordando la sua famiglia (cioè da adulta, gettando uno sguardo indietro nel tempo): ma si fa piccina un'altra volta e narra in diretta quello che vede con i suoi occhi. Non si comporta come un narratore onnisciente, ma come un cameraman impegnato in una presa diretta. Pagina dopo pagina, diventando grande, la Ginzburg inizia a comprendere meglio le dinamiche della propria famiglia, e quelle della storia che si sta svolgendo tutto attorno a lei.

Come lettore mi sono pertanto ritrovato a vivere cinquantanni di storia, raccontati da uno sguardo che, nel tempo, acquisisce sempre più consapevolezza. Un artificio bello e calibrato, come se aprendo le pagine di Lessico famigliare, venissimo presi per mano da bambini e, scorrendo la storia che viene narrata, ci facessimo adolescenti e adulti, divenendo parte integrante anche noi della famiglia Ginzburg, della casa editrice Einaudi, del nostro Paese. Vivendo, quasi sulla nostra pelle, cinquantanni di storia, come un brivido che lascia senza respiro.