martedì 8 dicembre 2009

Raymond Carver #2

Testo nato dall'articolo pubblicato il 20.11.2009 da La Voce di Romagna, a firma di Davide Brullo (e riportato in calce).

Vuoi star zitto, per favore”? No. Come si fa a star zitto di fronte ad una violenza ingiustificata, seppur verbale? Ecco perché torno, dopo aver a lungo meditato, ancora su Carver. Perché Brullo ha pubblicato sulla Voce alcune Opinioni travestite da Verità. Per esempio sul tema della “volontà” dell'autore, di Carver, che secondo Brullo è fedelmente rispettata nel testo pubblicato (se l'autore non mette la sua firma sull'ultima bozza, non si pubblica niente).

Raymond Carver nel luglio del 1980 scrive a Gordon Lish, il suo editor, a proposito di una raccolta di racconti, “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”, di prossima pubblicazione. “Ti prego, Gordon, per l’amor di Dio, dammi una mano e cerca di capirmi… Sono costretto a chiamarmene fuori. […] Devo a te questa vita più o meno interessante che faccio ora. Ma se accetto questa cosa così com’è, non sarà un bene per me. [...]Qui è in gioco il mio equilibrio mentale… Lo sento: se il libro fosse pubblicato nella sua attuale forma revisionata, non riuscirei più a scrivere un altro racconto”.

Invece il libro uscì come lo voleva Lish: fu un successo straordinario. Dalla raccolta successiva, “Cattedrale” (1982) la gomma del suo editor si fece molto meno invadente, anche per la maggior sicurezza acquisita dall'autore: il nuovo libro di Carver venne accolto con entusiasmo dalla critica e dagli estimatori.

Insomma: tagliato, oppure “conforme” all'originale, il nostro ebbe ugualmente successo. Rileggere “Principianti” (il vero titolo di “Di Cosa parliamo quando parliamo d'amore”) appena pubblicato da Einaudi, diventa allora un esercizio interessante per capire cosa era stato 'mondato' da Lish, riscoprendo un inedito Carver.

Detto questo, veniamo ad altro. Se andiamo dietro al discorso di Brullo – che si ripete in quasi tutti gli articoli che Davide scrive - alcuni libri sono irrinunciabili, altri si possono tranquillamente saltare. Sono assolutamente d'accordo: però lo posso dire solo per irrinunciabile e umana esperienza.

Ritengo infatti che il percorso di un lettore debba essere sì illuminato dalle dritte di chi ne sa di più, anche di un Brullo, per esempio: però chi legge ha anche il sacrosanto diritto di lasciarsi irretire da una copertina (così ho scoperto “Pastorale americana” di Roth, meraviglioso) o invitare da un titolo ammiccante (così ho preso “Amsterdam” di McEwan, bruttino) o da una quarta di copertina ben scritta: perché – come scrive Nick Hornby: "...da lettura nasce lettura e uno che non devia mai da un elenco prestabilito di libri è già intellettualmente morto...".

Anche nei libri brutti si può trovare quella pagina, quella frase, quella riga, che ti colpisce e che ti cambia – o prova a cambiarti – la vita. Diffido dai maestri che ti dicono “Questo lo devi leggere, questo no”, anche se la vita è breve e tempo per leggere non ce n'è. Perché la libertà (disciplinata), è tutto: anche nella scelta degli autori; e libertà vuole anche dire sbagliare libro, tanto basta chiuderlo e aprirne un altro, male che vada lo rivendi o lo regali a qualcuno. I consigli, insomma, sono sempre bene accetti, le imposizioni no.

Detto questo: Carver per me resta un grandissimo autore, come lo è anche Tolstoj: ma è solo il mio parere, uno dei tanti, chissà se a qualcuno interessa. Ciò che è veramente importante in un dibattito, non è convincere a tutti i costi - arrivando anche a percuotere verbalmente l'avversario di turno - ma aprire infinite porte, o solo qualche porta in più, dalla soglia della quale invitare il lettore ad affacciarsi, per guardare oltre. Con la massima libertà di chiuderle e di dire: “No, grazie”.

Concludo spezzando una lancia in favore di Fernanda Pivano, prima messa un po' alla berlina da Brullo per aver tradotto nella fanciullezza Edgar Lee Master (che sì, sarà un autore non di primo piano, ma che c'entra questo con una traduzione ben fatta?) e aver proposto Bob Dylan come Nobel per la letteratura (perché, non è un poeta dei nostri tempi?); poi massacrata con parole irriferibili (vergogna!).

Sì, la Pivano non è Croce. Il suo metodo critico è infatti qualcosa di straordinario e di semplice al tempo stesso: Fernanda non si limitava a leggere un libro per presentarlo o commentarlo, ma voleva conoscerne l'autore, dove viveva, cosa mangiava, come si vestiva, per poter cogliere con maggiore profondità e onestà la genesi di questa o quell'opera.

Nel ciclo della “Fondazione” di Isaac Asimov – per citare un libro che forse Brullo usa per pareggiare le gambe del tavolo della cucina – si parla di un futuro in cui la civiltà ha smarrito la “scienza pratica” su cui si regge la vita (nessuno sa più, per esempio, come si ripara un reattore nucleare: di conseguenza l'intero universo che si fonda sull'energia atomica, rischia di regredire in un'epoca pre-rivoluzione industriale) per aver sviluppato esclusivamente il “pensiero sul pensiero”. Un archeologo afferma, in uno di questi volumi, di non aver bisogno di andare a scavare con la paletta in un sito per ragionare attorno ad una civiltà del passato, perché gli è sufficiente discettare di questa o quella teoria, propendendo per l'una o per l'altra. Ecco: Fernanda Pivano ha dato corpo e volto alle parole – dei critici, degli editori, degli stessi autori – a volte un po' vuote, a volte un po' inutili; rivelando l'umanità dietro il mito letterario, riportando coi piedi per terra chi è solito “prendere lucciole grafiche per lanterne esistenziali”.