domenica 28 novembre 2010

Arkadij Dolgorukij

Cara C.*,

spesso negli ultimi tempi mi sono trovato ad un passo da una decisione come quella che ho or ora preso, e che ho voluto renderti attraverso questo vile pezzo di carta. Non è facile per un uomo come me, con tutte le responsabilità che negli anni ho voluto assumermi, voltare la schiena adesso, per schivare quest'ultimo peso che, tu, mi hai caricato e che io, ignaro, ho accettato. Tu sai come io non mi sia mai risparmiato. Il primo ad alzarmi al mattino, l'ultimo a coricarmi la sera; indefesso sul lavoro - uno stakanovista, come proprio tu qualche giorno fa hai detto, ridendo. Eppure, come tutti i grandi uomini, anche io ho scoperto il mio limite, il mio lato debole, la mia ferita che sanguina e che mi rende pari agli altri esseri su questa terra. E' vero, ho fatto in modo di apparire meglio di quello che sono, ma se l'ho fatto ciò non è dovuto a vanità, a brama di potere: ma solo perchè ho aspirato a dare a te e al nostro piccolo M.* quella serenità e quella sicurezza nella quale per tanti anni vi siete beatamente crogiolati.

Eppure, nei miei sogni, un'ombra si è allungata, inghiottendo tutto me stesso.
Ricordo i miei primi anni, in cui mia madre solerte mi suggeriva, mi educava, avvicinandomi ad un altro ideale, che poi avrei un giorno sconfessato. Ecco perchè questa nuova sofferenza, questa rinuncia, questo improvviso ma non impulsivo atto di volontà, è giunto infine a rivelarsi.
Cara C*, ho apprezzato ogni tuo gesto dal primo momento. Sai che i nostri caratteri hanno spesso preso fuoco per un nonnulla, e che tante altre volte ci siamo ritrovati. Eppure, questa vicenda che ha allineato una serie non da poco di successi che farebbero scomparire tanti uomini, ha incontrato infine la tormenta che ha paralizzato le mie membra, la mia fin qui ferrea volontà.
Non intendo prolungare questa attesa, ormai la decisione è presa e non saranno le tue parole, o lacrime, o lusinghe, a smuovermi: come una roccia che resiste al mare in tempesta per secoli, con la fronte fiera di fronte alla violenza delle onde, così io sto, con cuore sanguinante di ricordi appassionati, interpretando il carnefice nell'atto finale di questa tragedia che non trova più senso neanche nelle parole, nei pensieri appena accennati, di cui sommamente mi sono vergognato.
Che smacco, che sofferenza: quanti ne parleranno? Con chi ti potrai scagliare, dopo che ogni fiducia in me riposta sarà venuta meno, per sempre? Avrai ancora il desiderio, o la pietà, di scrutare oltre il tuo sguardo nei miei occhi impassibili ma velati da quell'aura indelebile di fallimento?
Ebbene, mia cara: con mani tremolanti e voce soffocata dai singulti di un'autorevolezza ormai defunta, ti confesso di aver deciso di interrompere per sempre la lettura de "L'Adolescente" di Fedor Dostoevskji che mi hai regalato per il mio compleanno.
Mi sono chiesto tante, troppe volte, sfogliando quelle pagine bianche e fitte di minuscoli caratteri, che cosa c'entrasse tutto questo con la mia vita. Io minuscolo Ismael nelle fauci della Balena Bianca dei vari Tolstoj, Dostoevskji, Turgenev, confesso ora al mondo di non esser atto a consumare, riga dopo riga, alcunchè siffatto. Una brama smodata di vita, personaggi più prossimi al mio sentire, mi hanno alfin costretto, mio malgrado, nonostante una volontà capace, pagina dopo pagina, di terminare enormi a volte faticosissimi tomi, a chiudere gli occhi e sopportare l'onta di questo insuccesso.

Cara C.*, il tuo tentativo nobile, non fu vano, perchè 158 pagine le ho infin consunte. Ma di Arkadij Dolgorukij e dei suoi tormenti, dei logorroici turbamenti, di quella ricchezza tutta mentale di vissuti così tribolati; di quell'euforia adolescenziale, di quei propositi eroici perduti abbandonati una riga dopo, cosa hanno a che fare con me, con la mia vita? Quale consonanza? Nessuna.
Così ridiscende il velo che tu hai tentato, mia amata, di squarciare. E di questo tentativo sempre grato sarò a te, ma soprattutto alla tua fiducia che io, ahimè, stavolta, ho pagato male, sconfessandola. Non averne.

Ti prego, non averne. Perdonami. E se il tuo sdegno mi travolgesse, io non farei nulla per togliermi dalla tua strada, perchè ogni parola astiosa, ogni rimprovero, ogni diniego, è ben meritato e lo attendo, impaziente. Non ho potuto, non ho potuto: il solo Cecov, fu per me una lettura che potei attendere. Tutto il resto è polvere stesa su migliaia di pagine e di storie che hanno infiammato i cuori di milioni di lettori, per cent'anni e cent'anni. E che mai leggerò.

Tuo, R.*

giovedì 25 novembre 2010

Edipo Re

Un super affollato Mulino di Amleto ha salutato sabato 13 novembre scorso la riapertura della stagione teatrale 2010-2011 con lo spettacolo “Il Caso Edipo - anamnesi di una tragedia”. In scena Edipo, re e rockstar di pinkfloydiana memoria, desideroso di salvare il popolo su cui regna da anni, i tebani, afflitti da calamità per l'ira del dio Apollo. Tiresia dà il responso: è lui, Edipo, la causa del malanimo divino. Il re respinge con violenza le accuse del cieco indovino ma a poco a poco la verità si farà largo sino al tragico epilogo.
Edipo Re è una tragedia di Sofocle, andata in scena per la prima volta presumibilmente negli anni ‘20 del quinto secolo avanti Cristo. Il tema è quello dell'ineluttabilità del destino, al quale né Edipo – parricida, né Giocasta – madre incestuosa, né Laio – assassinato dal figlio, possono sottrarsi nonostante i diversi tentativi. Fin qui la vicenda è nota.
Lo spettacolo proposto dalla Compagnia di Banyan che ha tagliato il nastro della stagione “Nube di Oort” dedicata ai 'transiti di nuovo teatro' è diretto da Gianluca Reggiani, che ha messo in scena attori non professionisti nella remise en place del 'saggio', frutto del laboratorio teatrale dello scorso anno. In scena gli attori si muovono disciplinatamente sulle traiettorie disegnate da Reggiani, interpretando il testo di Sofocle (e rispettandolo), contrappuntato per tutta la durata della tragedia dalle canzoni di “The Wall” il concept album del 1979 dei Pink Floyd: una scelta interessante, una piacevole sorpresa, con momenti di assoluta consonanza fra i testi e le musiche di Waters e Gilmour e le parole di Sofocle.
In scena, il coro, in abiti medici, 'seziona' i personaggi e quindi lo stesso Edipo che, solo sotto i riflettori della sala operatoria, di fronte alle radiografie delle sue scelte, trova infine le tracce di una verità orribile, impronunciabile, nefanda, turpe.
Partendo dal presupposto della non professionalità degli attori, lo spettacolo è ben riuscito: si perdonano, infatti, volentieri voci un po' fiacche o eccessivamente stentoree e qualche piccolo vuoto di memoria (che capita spesso anche ai 'big'). Poderosa la performance di Edipo; bravissimo anche Tiresia (che si esprime in napoletano stretto, a rendere la 'non immediata decifrabilità' con cui gli indovini enunciavano le proprie sentenze), e non è da meno il suo 'traduttore'; bene il servo, il pastore e la 'guardia del corpo' del re. Spicca la regia di Reggiani, che ha saputo plasmare una materia antica in un contesto moderno. Nel complesso dei 90 minuti di durata, lo spettacolo risulta talvolta ridondante, per un utilizzo un po’ eccessivo del parallelo Pink Floyd/Sofocle, con musica anche invasiva e sopravanzante le voci in scena. Forse, osando maggiormente, il regista, anima del Mulino di Amleto, avrebbe potuto spingersi ancora più in là sulla strada della sperimentazione, facendo di Edipo una vera rock star, e quindi cercando un'altra via per la gestione del coro. La doppia metafora – musicale e medica – appare alla fine non del tutto integrata.
È innegabile tuttavia che la musica sia stata un elemento trascinante e alla fine sia risultata vincente per la riuscita dello spettacolo, inondato dagli applausi sulle note di “Another brick in the wall – part II”. Nella sua natura, Banyan, che propone una curiosa stagione teatrale, evidenzia l'anima laboratoriale, dei tanti e affollati corsi di teatro che vi trovano luogo. Ecco forse la ragione per cui si è voluto dare inizio alla stagione con uno spettacolo che tradisce, ogni tanto, le sue radici di 'saggio': per questo poteva essere collocato in un altro momento del cartellone. Comunque sia, l'applauso finale prolungato ha sottolineato giustamente un progetto piacevole, perfettibile, che mette in luce in primis le doti di Gianluca Reggiani nell'anno che deve, per forza, essere quello della 'rinascita', come sottolineato in apertura, prima del buio in sala, dallo stesso regista. Un augurio che condividiamo e che rivolgiamo di cuore, per la salvaguardia, la crescita, la difesa di uno spazio-patrimonio culturale di tutti.

lunedì 22 novembre 2010

Alessandro Formica

Riservato, sensibile, con un forte senso di responsabilità nei confronti del proprio impegno professionale e sociale. Alessandro Formica, Presidente dei Giovani Industriali di Rimini, si racconta al pubblico. Per la prima volta.

Quando il suo nome l’estate scorsa è apparso su tutti i giornali, molti si sono chiesti chi fosse il nuovo Presidente del Gruppo Giovani di Confindustria Rimini. Alessandro Formica, 32 anni, laurea in Scienze Politiche Internazionali, impegnato in Alfad, l’azienda di famiglia, ha scelto Rimini IN Magazine per parlare del suo nuovo ruolo, della città, di sé. Ci accoglie nella sua abitazione, piena di opere d’arte, che ha personalmente ristrutturato.

Come hai vissuto questi primi mesi da Presidente dei Gruppo Giovani?
Pur avendo fatto parte del consiglio direttivo dei Giovani di Confindustria di Rimini, per me è un’esperienza nuova ed importante. La mia idea è continuare su quanto tracciato dalla presidenza precedente, integrando nuove iniziative rivolte ai più giovani e approfondendo il rapporto con le scuole: un passaggio che ritengo fondamentale.

Con che stile ti approcci a questo lavoro?
Sono convinto che un presidente non possa fare nulla senza un lavoro di squadra: è l’unico modo per poter tagliare traguardi anche importanti. Il Gruppo Giovani è una palestra di esperienza, di contatti, di relazioni: la visibilità e il ruolo di presidente ha accentuato questa caratteristica, allargandola in ambito regionale e nazionale.

Lavori in nell’azienda di famiglia con tuo padre e tuo fratello: sei un giovane imprenditore di seconda generazione. Di cosa vi occupate?
Precisiamo: sono un giovane “aspirante” imprenditore. Alfad, una delle aziende di famiglia fondata da mio padre Mario e di cui mio fratello Giampaolo è direttore commerciale, si occupa di servizi fieristici integrati ed in particolare di allestimenti, mostre d’arte, musei, di scenografie e di eventi a livello nazionale ed internazionale. Siamo partner delle più importanti fiere italiane fra cui Milano e poi Bologna e Roma per le quali abbiamo contratti di fornitura in esclusiva.

Di cosa ti occupi?
Il nostro gruppo è composto da 5 aziende: io ne dirigo una e coordino l’attività del settore mostre e musei. La mia professionalità ed il mio lavoro, ovviamente, è a disposizione di tutto il gruppo.

Com’è lavorare in famiglia?
È sicuramente più difficile dal punto di vista relazionale. Avere un’azienda “in casa” è insieme una grande opportunità e una responsabilità. Anche fuori dal lavoro vivo molto il rapporto con i miei fratelli ed i miei genitori: tanti dei valori che costituiscono la mia etica li ho imparati da loro.

Come è nato il tuo impegno in Confindustria?
Quando ho compiuto 20 anni mi sono iscritto, dietro consiglio di mio padre. Il primo impatto è stato duro, perché incontravo imprenditori di 35/40 anni, con famiglia e professionalità consolidata, mentre io ero ancora un ragazzino. Per me è stata una grande palestra di vita, sono cresciuto vedendo e ascoltando.

Come hai maturato la tua candidatura a Presidente?
Credo nell’Associazione, prima di tutto. Ecco perché dopo sei anni di direttivo ho sentito il desiderio di dare un apporto maggiore, coltivando la sana ambizione di dare il mio contributo allo sviluppo del Gruppo Giovani.

E quale “imprinting” vorresti dare all’Associazione?
Il Gruppo Giovani può ricoprire un ruolo di guida e di aiuto per chi si affaccia per la prima volta al mondo dell’imprenditoria, soprattutto per gli under 30 anni, e allo stesso tempo consolidare i rapporti e la crescita di chi è già all’interno della vita imprenditoriale ed associativa.

Il tuo campo d’azione è Rimini: che rapporto hai con questa città?
Adoro Rimini e sono fiero di essere riminese: ci tengo sempre a sottolineare il mio essere romagnolo!

Non si può comunque dire che Rimini stia attraversando un buon momento: viabilità, un’estate disastrosa per il nostro turismo, ‘campanili’ anche a livello sportivo. Buoni ultimi i problemi del Palacongressi, ancora senza una data di inaugurazione. Cosa ne pensi?
Al di là delle polemiche, le strutture fatte devono essere rese operative nell’interesse dei cittadini e delle associazioni di categoria. La mia famiglia ha creduto da subito al nuovo Palacongressi: infatti, rappresento Alfad, unico socio privato, nel CdA di Convention Bureau, società deputata alla gestione del Palacongressi. È evidente però che certe situazioni devono farci riflettere su come sono state gestite. Sono comunque ottimista e mi impegnerò per migliorare la mia città.

Quali sono i passi da compiere in questa direzione?
Occorre smettere di dire che le cose vanno male per colpa di altri: noi siamo gli altri. Dobbiamo assumerci una parte di responsabilità e recuperare un po’ di senso civico.

Da dove si deve cominciare?
Da una riflessione. Mi sembra evidente che oggi si consideri più importante “cosa” facciamo rispetto a “come” facciamo le cose. Io credo che la vera sfida sia trovare il giusto equilibrio fra questi due aspetti.

Cosa fai allora quando hai tempo per te stesso?
Cose semplici. Lavoro e impegni istituzionali mi lasciano poco tempo libero, che divido fra famiglia e sport, la mia vera passione, che mi permette sì di tenere allenato il corpo, ma soprattutto di scaricare la mente.

Qual è il luogo di Rimini che ami di più?
Il mare: è la prima cosa che voglio vedere quando sono di ritorno da un viaggio.


*Uscito sul numero di Novembre/Dicembre 2010 di Rimini IN Magazine
**Fotografie di Riccardo Gallini

mercoledì 10 novembre 2010

Silvio e il Mule

Questo lo devo scrivere, perchè non mi lascia in pace. 
Berlusconi. Berlusconi è 'sceso' in politica (perchè prima stava in alto, e la politica è piccola, rasoterra, che le puoi pure dare un calcio che tanto non se la fila nessuno) nel 1994, quando ho compiuto 18 anni e ho potuto votare per la prima volta. In pratica, il suo nome, il suo simbolo, è sempre stato in tutte le schede che ho votato nella mia vita. Oggi ho 34 anni, sono passati 16 anni, e lui è ancora lì. A parlare di famiglia (dopo aver divorziato, tradito la seconda moglie, passato in rassegna una lunga fila - a leggere i giornali - di donne che, l'ha detto lui, gli piacciono: "e che ci posso fare? mi piacciono le donne. alla mia età non cambio." "Meglio puttaniere che gay".), di bene comune (quando ha fatto della sua/delle sue imprese una delle ragioni di vita), di politica (cioè un qualche cosa che ha a che fare con il cittadino, con la città, una vocazione di dono agli altri, la più alta forma di carità, da lui scambiata sicuramente per qualche cosa più prossimo ai propri bisogni individuali). Fra barzellette, bestemmie, avvisi di garanzia, feste, ricchezza, ville, denaro - tanto, tanto, tanto denaro - sempre indenne, sempre vivo, dopo polemiche che avrebbero stroncato un Clinton, un Miterrand, uno Zapatero qualunque. Eppure lui è ancora lì, a governare (?) un Paese, il mio, allo sbando, vessato da una politica che è uscita dalle piazze per entrare nei salotti Tv, da polemiche che non hanno niente a che fare con la gente comune - che prona morbosamente assiste a tutto quello che passa il MediaConvento - da problemi a cui non si trova soluzione. Ora siamo alla stretta finale: riuscirà Fini a farlo cadere? 
Ma la mia riflessione non è questa: questo è un dato di fatto, una storia che, più o meno, tutti conoscono.
La mia riflessione nasce dalla semplice constatazione che Silvio ha 74 anni e tra un po' dovrebbe, per raggiunti limiti di età, morire (se non lascia la politica prima, ma c'è da scommetere che non lo farà). Mettiamo che muoia. Come verrà ricordato il suo impegno politico? Per quali risultati? Per quali barzellette? Per quali milioni di posti di lavoro? Io credo che, con il senno di poi, tra trent'anni, guarderemo a questo periodo come ad un sogno, o un incubo, a qualche cosa che non sarà più possibile ripetere, a qualche cosa che non sembra nemmeno vero. Nessun politico potrà fare come lui, perché nessuno avrà il coraggio di osare tanto, sfidando le leggi, il buon senso, il costume, l'etica, la morale, la religione, l'amore. Nessuno potrà portarsi belle donne a Palazzo Grazioli o altrove, nessuno ci diletterà con le sue passioni musicali o sessuali. Dovremo per forza tornare a parlare di politica e a vivere la politica, soprattutto, in un modo diverso, più vicino alla gente. Anche lui è stato vicino alla gente, ma in modo subdolo, facendo appello agli istinti più bassi, alle curiosità più morbose; come ha scritto Severgnini, Berlusconi ci piace perché c'è un po' di Berlusconi in tutti noi. E ha ragione.
Ma, dicevo, tutto questo sta per finire, fra poco e come potremo valutare il suo tempo? Un tempo pazzo, involuto, sprecato forse; la fine di un sogno da cui riemergeremo più poveri, disillusi, stanchi. 
In un libro di Isaac Asimov, "Fondazione e Terra "(pubblicato in origine come "Il crollo della Galassia centrale"), secondo capitolo del Ciclo della Fondazione, il Piano Seldon è minacciato. Hari Seldon, uno scienziato, aveva inventato la psicostoriografia, una scienza matematica con la quale si poteva 'capire', a grandi spanne, come sarebbe andato il futuro. Il Piano Seldon sembra svolgersi correttamente: ad ogni crisi intergalattica, sopraggiunge la soluzione che Seldon ha predetto (ma che lui stesso, in filmati registrati proiettati nella "volta delle stelle", racconta solo a posteriori, per non condizionare gli esseri umani nelle loro azioni). Ma Seldon non ha considerato il Mule. Un essere mutante, capace di usare la forza del pensiero per piegare i nemici al suo volere, che rapidamente conquista buona parte dell'universo. Il Mule viene a sapere che esiste una 'seconda Fondazione' (la prima, con il suo arrivo, ha 'fallito' e il Piano Seldon è andato a rotoli) e si mette alla sua ricerca per distruggerla ed avere il controllo della galassia. Non andrà così. La sua memoria, la sua volontà, sarà 'cancellata' dagli uomini della seconda Fondazione: il Mule, pur continuando a governare, dimenticherà di questa sua ricerca, morendo quasi da imperatore 'illuminato'. Del Mule non resta traccia.
Un'anomalia, nel Piano Seldon, come Berlusconi è un'anomalia nel Piano Italia. E' questa la mia idea, è questa la mia speranza, che per ragioni anagrafiche potrò vedere da vicino, se il buon Dio me lo permetterà. Ci dimenticheremo di Silvio, dei suoi comportamenti, di questa stagione im-politica senza una rotta, senza un perchè, in una degradazione del servizio pubblico che ha colpito anche molte brave persone, provocando un allontanamento che ai più pare insanabile, dell'uomo, del cittadino, delle persone dalla cosa pubblica. Eppure, per quanto dolore abbiamo provato, questo tempo finirà. Portandosi via ogni anomalia, restituendo alla storia il suo giusto fluire.
Ecco, lo volevo dire, l'ho detto.

domenica 7 novembre 2010

Ore

"Sì," dice Clarissa. "E' ora."
Sembra che in questo momento Richard cominci davvero a lasciare il mondo. Per Clarissa è una sensazione quasi fisica, uno strappo morbido ma irreversibile, come un filo d'erba che venga tirato via dalla terra. Fra poco Clarissa si addormenterà, fra poco tutti quelli che lo conoscevano si saranno addormentati, e tutti si sveglieranno domani mattina per scoprire che lui si è unito al regno dei morti. Si chiede se l'indomani mattina segnerà non solo la fine dell'esistenza terrena di Richard, ma anche l'inizio della fine della sua poesia. Dopo tutto ci sono così tanti libri. Alcuni di essi, una manciata, sono buoni, e di quella manciata solo pochi sopravvivono. E' possibile che i cittadini del futuro, persone non ancora nate, vorranno leggere le elegie di Richard, i suoi lamenti cadenzati con tanta bellezza, le sue offerte di amore e furia rigorosamente antisentimentali, ma è molto più probabile che i suoi libri svaniranno con quasi tutto il resto. Clarissa, il personaggio del romanzo, scanirà, così come Laura Brown, la madre perduta, la martire e il diavolo.
Sì, pensa Clarissa, è ora di mettere fine a questa giornata. Diamo le nostre feste; abbandoniamo le nostre famiglie per vivere soli in Canada; combattiamo per scrivere libri che non cambiano il mondo, nonostante il nostro talento e i nostri sforzi senza riserve, le nostre speranze più stravaganti. Viviamo le nostre vite, facciamo qualunque cosa, e poi dormiamo - è così semplice e ordinario. Pochi saltano dalle finestre o si annegano o prendono pillole; più persone muoiono per un incidente; e la maggior parte di noi, la grande maggioranza, muore divorata lentamente da qualche malattia o, se è molto fortunata, dal tempo stesso. C'è solo questo come consolazione: un'ora qui o lì, quando le nostre vite sembrano, contro ogni probabilità e aspettativa, aprirsi completamente e darci tutto quello che abbiamo immaginato, anche se tutti tranne i bambini (o forse anche loro) sanno che queste ore saranno inevitabilmente seguite da altre molto più cupe e difficili. E comunque amiamo la città, il mattino; più di ogni altra cosa speriamo di averne ancora.
Solo il cielo sa perchè lo amiamo tanto.
Qui c'è ancora la festa: i fiori sono ancora freschi, tutto pronto per gli invitati, che alla fine sono solo quattro. Perdonaci Richard. In effetti, e dopo tutto, è una festa. Una festa per quelli che non sono ancora morti, per quelli relativamente in buone condizioni, per quelli che per ragioni misteriose hanno la fortuna di essere vivi.
E', in effetti, una grande fortuna.
Julia dice: "Credi che dovrei preparare un piatto per la madre di Richard?"
"No," dice Clarissa, "vado a prenderla."
Ritorna in salotto da Laura Brown. Laura sorride debolmente a Clarissa - chi sa cosa pensa o sente? Eccola, la donna della furia e del dolore, del pathos, del fascino abbagliante; la donna innamorata della morte; la vittima e la carnefice che ossessionava il lavoro di Richard. Qui in questa stanza c'è l'amata, la traditrice: una donna anziana, una bibliotecaria in pensione di Toronto, che porta vecchie scarpe da signora.
E c'è anche lei, Clarissa, non più la signora Dalloway: non c'è più nessuno a chiamarla così. E ha un'altra ora davanti a sé.
"Vegna, signora Brown," dice. "E' tutto pronto."

Estratto dalle pagg. 165-166 de "Le Ore" di Michael Cunningham (Bompiani, 1999)