venerdì 24 settembre 2010

Silvano Cardellini, un ricordo personale

Ho conosciuto Silvano Cardellini nel 2004, quando partecipava alle conferenze stampa che organizzavo. Arrivava con passo lento, il berretto calato in testa, gli occhiali a metà del naso. I suoi colleghi, se non lo vedevano, mi chiedevano "Silvano viene?" perchè se c'era lui, allora c'era la notizia. Altrimenti, no. Dopo la conferenza, si fermava a confabulare con gli altri giornalisti, che fra l'ironico e il deferente gli chiedevano il taglio che avrebbe dato all'articolo: anche qui, faceva scuola. Aveva un carattere molto difficile: quando componevi il suo numero di telefono sapevi che avrebbe risposto al massimo con un 'Sì?' e che ti giocavi tutto in pochi secondi. Mi sembrava un po' burbero - forse lo era davvero - e all'inizio avevo soggezione di lui. Talvolta mi sgridava - "Non puoi telefonarmi ogni volta per chiedermi se ho ricevuto il comunicato stampa!" - ma gli passava subito e poi, più disponibile, mi ascoltava. Così c'era voluto poco perchè mi affezionassi a lui e lo elevassi al ruolo - senza che l'abbia mai saputo - di maestro.

Un giorno mi hanno detto che era stato male e mi avevano spiegato anche il perchè: mi addolorai molto, così come fui contentissimo, dopo un periodo piuttosto lungo, di rivederlo avanzare fra le poltroncine dell'ennesima conferenza, salutarmi e prendere posto. Ricordo che una mattina che il Sole 24 Ore Centro Nord pubblicò in anteprima una notizia che avremmo dato quello stesso giorno in conferenza stampa, quando lo chiamai per sapere se sarebbe venuto, mi disse con tono di rimprovero: "La notizia è bruciata, non si fa così! Cosa vengo a fare?". Poi arrivò, mi prese da parte e mi disse, con mia grande sorpresa: "Sono venuto solo per rispetto nei tuoi confronti".

Negli ultimi tempi, quando faceva molta fatica a muoversi e sentiva anche dolore - anche se non lo dava a vedere - lo accompagnai ad una conferenza stampa in macchina: parlammo del più e del meno, ma non della sua malattia, della quale forse non c'era niente da dire, perchè era lì, la potevi vedere, la potevi sentire. A chi non sapeva chi fosse, lo presentavo come "Silvano Cardellini, il grande giornalista del Resto del Carlino", e si stupivano di vederlo piccolo, infagottato, quasi camuffato fra berretto, occhiali e sciarpa. Una sera ero passato a trovarlo in redazione: nonostante il Carlino avesse già chiuso l'edizione di Rimini, sembrava avesse ancora molto lavoro da fare. Si fermò a chiacchierare volentieri un po' con me, poi ricevette una telefonata. Era sua moglie che lo aspettava di sotto: d'un tratto - questa è l'impressione che ne trassi - sembrò scrollarsi di dosso la sua maschera da giornalista, il suo aplomb. Si tirò su tutto sorridente, con gli occhi brillanti. Piantò lì ogni cosa, così com'era, prese il soprabito e scese di gran carriera le scale. Gli tenni dietro, mi salutò appena, volò oltre piazza Cavour e lo persi di vista.

Il giorno del suo funerale in Duomo, quando portarono fuori la bara, uno dei portantini mi chiese se volevo sostenerla. Dissi di no, faticosamente, ma mi pentii subito. No, perchè chi ero io per meritarmi questo onore? Mi dispiacque invece moltissimo, perchè mi era sembrato di avergli negato un ultimo favore. E glielo dovevo, eccome! Ancora ci penso, e vorrei averlo fatto: se potessi gli darei volentieri un colpo di telefono, per spiegargli tutto. Ma che prefisso bisogna fare per chiamare in Paradiso?