lunedì 10 luglio 2017

Elizabeth Strout. Abide with me / Resta con me

Cosa 'resta con me' dopo aver letto Resta con me, romanzo di Elizabeth Strout? Autrice incontrata per caso e non saprei neanche dire come e perché con Olive Kitteridge, portata poi qualche tempo fa molto bene sullo schermo da Frances McDormand, avevo recentemente letto l'ottimo Mi chiamo Lucy Barton e abbandonato invece I ragazzi Burgess per sopraggiunta noia o imprecisate cause legate al plot. Resta con me invece...restava in penombra, con una copertina poco interessante, un titolo poco attrattivo. 

Un regalo di compleanno rimasto lì, tra gli altri libri di Elizabeth. Poi ho iniziato a sfogliarlo per caso molto lentamente, e con pochissime pagine al giorno o addirittura a settimana, mi sono immerso nella cittadina di West Annett nel Maine, mescolandomi tra i suoi abitanti, ascoltando voci, racconti, seguendo i passi tra la neve che, a quanto pare, cade abbondante da quelle parti. Ne parlavo con mia moglie e dicevo: "Sto leggendo questo libro della Strout, non mi dice granché, ma non riesco a smettere, perché voglio capire dove va a finire, come procede la storia". 

Sì, la storia ad un certo punto mi ha abbracciato così forte che, in un balzo, ho bruciato le ultime 200 pagine e l'ho terminato in un soffio, in un tremito, in un sorriso.

Protagonista di questo romanzo comunque corale è il reverendo Tyler Caskey, che inizia la sua attività di pastore presso la comunità di West Annet. La scena, credo, possa essere ambientata quasi ai giorni nostri (il libro è del 2006, uscito in Italia da Fazi nel 2010). Lo troviamo già scosso e distaccato: aveva iniziato alla grande il suo servizio, tutti lo avevano amato subito e lui si era sentito accolto, amato. I sermoni imparati a memoria, l'attenzione e l'ascolto per ciascuna delle sue pecorelle. Ora invece tra se' e il resto del mondo ha messo un velo di indolenza, sordità, incomprensione. Una figlia non parla più, Katherine. L'altra - Jeannie - vive con la mamma di Tyler, Margareth, donna piuttosto ingombrante. C'è anche Lauren, la moglie, di cui si parla poco, all'inizio, ma che si capisce non ci sia più. A poco a poco, come la neve che cade lenta sulle case e sui prati di West Annet, la trama si dipana, i vari personaggi prendono spessore, le vicende personali si arricchiscono di particolari, fino a quando viene fuori la verità di ciascuno. O almeno, il lettore la conosce. Tyler no, ma la intuisce. 

In un crescendo di tensione, di pettegolezzi, di bugie, di rivelazioni sensazionali - e ordinarie al tempo stesso - la vicenda culmina in occasione di un sermone che Tyler deve tenere nella sua chiesa. Ci ha lavorato tutta la settimana, è pronto: sa cosa dire, sa chi guardare. E la chiesa è piena fino all'orlo. C'è la madre, c'è la donna che sua madre ha scelto per sostituire la moglie del reverendo, ci sono tutti gli abitanti di West Annet, compreso Charlie che qualche giorno prima aveva aggredito a male parole e non solo, Tyler stesso. Ad un certo punto, mentre si sistema al centro del presbiterio, Caskey ha l'immagine di tutti i suoi fedeli vestiti da puritani del '600, come appena sbarcati dalla Mayflower. Un'immagine potente, di un processo che sta per cominciare. 

Elizabeth Strout è un autentico genio della letteratura del nostro tempo. Penso ad Alessandro Manzoni, unico nella nostra storia a saper raccontare con dovizia di particolari ma senza annoiare mai, tutti i turbamenti e i movimenti dell'animo umano. Le sfumature, i pensieri, i tentativi, le cattiverie che riempiono il nostro lobo prefrontale, nel momento in cui iniziamo ad immaginare, a tessere trame, costruire connessioni. 

Così la Strout, dirigendo la sua orchestra di caratteri, porta l'azione ad un'apice di tensione nel quale le ragioni di ciascuno si sciolgono, come in un pianto a dirotto. Quel che resta, di una vicenda fatta di relazioni violente 'nel pensiero' e raramente nei fatti, è l'umanità. La chiave di volta per riportare le pecorelle nell'ovile, per ridare un senso alla vita di Tyler Caskey, è proprio l'incontro, il re-incontro vorrei dire, con la sua umanità. 

Abbracciare e accogliere se stessi, fare verità sui propri desideri, su ciò che siamo. Accettare la distanza da ciò che vorremmo essere. Scegliere il qui e l'ora per vivere la nostra storia e non un domani fatto di 'se' e di 'forse'. Incontrare davvero il prossimo, per conoscerlo davvero, e amarlo come persona unica, irripetibile. Tyler viene, infine, accolto, solo quando si mostra per ciò che è realmente. 


La fragilità dell'uomo è la sua forza. Le lacrime di Tyler apriranno il cuore di molti, laveranno le colpe di tutti, faranno ancora più brillare l'azzurro dei suoi occhi, restituiranno la voce a sua figlia. Straordinario.

sabato 24 giugno 2017

Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra

Dopo 576 pagine e aver lanciato il libro contro mio figlio - capita, era l'unica cosa che avevo in mano in quel momento - e mancando clamorosamente il bersaglio a causa del letto a castello che era frapposto tra noi, sono alfin giunto al termine di Un altro giro di giostra di Tiziano Terzani (1938-2004). 

La storia è nota: a Terzani, inviato del Der Spiegel per una vita, viene diagnosticato un cancro e ricorre alla medicina tradizionale, operandosi - con tutto quel che protocollo vuole - nel Memorial Sloan Kettering Cancer Center (MSKCC) di New York. Terminato il 'ciclo' di cure, decide di partire per cercare 'altre' cure, che culture diverse, tradizioni differenti, hanno messo a punto. Siamo alla fine degli anni '90. Il suo viaggio intorno al mondo durerà a lungo, sette anni, un tempo durante il quale la curiosità del giornalista questa volta è messa a servizio di se stesso, nel tentativo di trovare una cura efficace contro il cancro, che al momento comunque sembra sotto controllo. Tra millantatori, santoni, guru, monaci, erboristi, pranoterapeuti, colonterapia, cristalloterapia, piscio di vacca, meditazione, ashram, Veda, Vedanta, elefanti sacri, erbe, pillole, bevande, purghe, piramidi, etc. etc., Terzani compie un lungo giro di giostra tra Grande Mela, India, Thailandia, Usa, Hong Kong, Filippine, intervallate da alcuni ritorni a casa, ad Orsigna, per varie riunioni di famiglia, alternate alle visite al MSKCC e all'ultimo solitario e silenzioso ritiro in India, ai piedi - appunto - dell'Himalaya, prima in compagnia della moglie Angela, poi da solo, per lunghi mesi.

Terzani affronta questo viaggio con l'occhio disincantato e critico del giornalista ma soprattutto dell'uomo europeo, una natura con la quale deve sempre fare i conti, e che lo condiziona, negli incontri con le altre culture e civiltà, avanzate o meno che siano. Narratore formidabile di storie altrui, questa volta Terzani mette in evidenza anche le sue riflessioni, le paure, il dolore, l'incertezza, e l'instancabile desiderio di trovare una cura. Partito con questo obiettivo, Terzani scopre di essere in realtà in cerca di se stesso, del vero 'io' che è al di sotto di tutti gli strati che fanno di lui ciò che è. In un processo di disgregazione di certezze e di materia, arriva a farsi chiamare in un ashram come 'Anam', ovvero 'il senza nome', annullando la propria identità e la propria storia. Ma come possiamo - sembra chiedersi - essere 'senza nome' e al tempo stesso 'essere se stessi'? Così, tra un'ascesi e l'altra, Terzani capisce che l'identità è anche relazione con l'altro, in una tensione continua tra due polarità: solitudine e contemplazione da un lato, legami e comunità umana dall'altro. Non c'è una soluzione, la scelta è impossibile: perché queste due anime non sono altro che parti costitutive dello stesso uomo. 

E la cura? La cura non esiste. La verità, sembra dire Terzani, è consapevolezza. E la malattia non è altro da sé, ma va accolta come parte di se stessi.

E io? Non avevo tirato qualche saggia conclusione dalla mia vita degli ultimi anni? Andando a giro per il mondo a incontrare medici, maghi e maestri avevo capito che era inutile continuare a viaggiare, che la cura delle cure non esiste e che la sola cosa da fare è vivere il più coscientemente, il più naturalmente possibile, vivere in maniera semplice, mangiando poco e pulito, respirando bene, riducendo i propri bisogni, limitando al massimo i consumi, controllando i propri desideri e allargando così i margini della propria libertà. Allora, che ci facevo lì, sulle tracce dell'ennesimo medico? (T. Terzani, Un altro giro di giostra, p. 496).

Mi sono appuntato, durante la lettura, alcuni passaggi, che ritrascrivo. Mi hanno fatto riflettere e hanno rispecchiato, in taluni punti, ciò che penso e credo.

Viaggio
Si fermò come per farci riflettere.
"E questa non è coscienza". Toccandosi il petto concluse: "Ciò che è fuori è anche dentro; e ciò che non è dentro non è da nessuna parte".
Poi, come se volesse alleggerire l'atmosfera, scoppiò in una bella risata e, rivolto a me, aggiunse: "Per questo viaggiare non serve. Se uno non ha niente dentro, non troverà mai niente fuori. E' inutile andare a cercare nel mondo quel che non si riesce a trovare dentro di sé". 
Mi sentii colpito. Aveva ragione.
(Ibidem, p. 516)

Libertà
Appena ci si stacca dalla routine, ci si accorge di quanta poca libertà, anche interiore, si ha nella vita di tutti i giorni e di come quel che solitamente facciamo e pensiamo è spesso frutto di semplici automatismi. Diamo per scontati i ragionamenti della ragione, le nozioni della scienza, le esigenze del nostro corpo e quelle della logica e con ciò ci impediamo di vedere il mondo e noi stessi in modo diverso dal solito. 
Anch'io, quante idee e convinzioni, quanto "sapere" avevo accumulato nella mia vita! E non sarebbe stato bello tornare a essere un foglio bianco su cui scrivere qualcosa di completamente nuovo?
(Ibidem, p. 526)

Guru
"Il guru è importante", continuò il Vecchio. "Esprime a parole quel che tu senti come vero dentro di te. ma una volta che hai fatto l'esperienza diretta di quella Verità non hai più bisogno di lui. Il guru ti indica la luna, ma guai a confondere il suo dito con la luna. Il guru ti fa vedere la strada, ma quella la devi percorrere tu. Da solo."
Poi, come fosse arrivato il momento di dirmi una cosa che poteva davvero aiutarmi, aggiunse: "Il vero guru è quello che sta dentro di te, qui", e mi puntò uno dei suoi diti ossuti contro il petto. "Tutto è qui. Non cercare fuori da te. Tutto quello che potrai trovare fuori è per sua natura mutevole, impermanente. Ti puoi illudere di trovare stabilità nella ricchezza, ma poi quella finisce. Puoi pensare di trovarla nell'amore di una persona, che poi se ne va. O nel potere, che facilmente cambia di mano. Puoi affidare la tua vita a un guru e quello muore. No, niente di ciò che è fuori ti appagherà mai. La sola stabilità che può aiutarti davvero è quella interiore. E i guru che si rendono indispensabili servono il proprio Io e non la ricerca dei discepoli."
(ibidem, p. 539)

Ragione e mistero
Le mie saltuarie visite al mondo, specie quelle a New York, dove non solo il beneamato ospedale, ma anche tutto il resto rappresentava la punta più avanzata di quel che la civiltà occidentale era capace di produrre, mi avevano rafforzato nell'idea che la soluzione ai problemi umani non può venire dalla ragione, perché proprio la ragione è all'origine di gran parte di quei problemi.
La ragione è dietro all'efficienza che sta progressivamente disumanizzando le nostre vite e distruggendo la terra da cui dipendiamo. La ragione è dietro alla violenza con cui crediamo di mettere fine alla violenza. La ragione è dietro alle armi che costruiamo e vendiamo in sempre maggiore quantità per poi chiederci come mai cono sono così tante guerre e tanti bambini che vengono uccisi. La ragione è dietro alla cinica crudeltà dell'economia che fa credere ai poveri che un giorno potranno essere ricchi mentre il mondo in verità si sta sempre più spaccando fra chi ha sempre di più e chi ha sempre di meno. 
La ragione, che pur ci è stata di grande aiuto e ha contribuito al nostro benessere, soprattutto quello materiale, ci ha ora messo in catene. Dopo aver negato qualsiasi ruolo alle nostre emozioni e all'intuito, dopo aver fatto dei sogni una lingua morta, la ragione ci impone ora di pensare e di parlare esclusivamente a suo modo. 
La ragione ha tagliato via dalle nostre vite il mistero, ci ha fatto dimenticare le favole, ha reso superflue le fate e le streghe che invece servivano tanto a completare il nostro altrimenti arido panorama esistenziale.
(ibidem, p. 548)

"Io, chi sono?"
La risposta sta nel porsi la domanda, nel rendersi conto che io non sono il mio corpo, non sono quello che faccio, non sono quello che posseggo, non sono i rapporti che ho, non sono neppure i miei pensieri, non le mie esperienze, non quell'Io a cui teniamo così tanto. La risposta è senza parole. E' nell'immergersi silenzioso dell'Io nel Sé.
(ibidem, p. 551)

Rivoluzione
Più che assaltare le cittadelle del potere, si tratta ormai di fare una lunga resistenza. Bisogna resistere alle tentazioni del benessere, alla felicità impacchettata; bisogna rinunciare a volere solo ciò che ci fa piacere. Bisogna non abbandonare la ragione per darsi alla follia, ma bisogna capire che la ragione ha i suoi limiti, che la scienza salva, ma anche uccide e che l'uomo non farà alcun vero progresso finché non avrà rinunciato alla violenza. Non a parole, nelle costituzioni e nelle leggi che poi ignora, ma nel profondo del suo cuore. 
La strada da percorrere è ovvia: dobbiamo vivere più naturalmente, desiderare di meno, amare di più e anche i malanni come il mio diminuiranno. Invece che cercare le medicine per le mattie cerchiamo di vivere in maniera che le malattie non insorgano. E soprattutto, basta con le guerre, con le armi. Basta coi "nemici". Anche quello che faceva impazzire le mie cellule non era tale. Al momento siamo noi i nemici di noi stessi.
Bisogna riportare una dimensione spirituale nelle nostre vite ora intrappolate nella pania della materia. Dobbiamo essere meno egoisti, meno presi dall'interesse personale e più dedicati al bene comune. Bisogna riscoprire il senso di quel meraviglioso, lapidario messaggio sulla facciata del duomo di Barga in Garfagnana che lessi da ragazzo durante una gita scolastica e che da allora m'è rimasto impresso nella memoria.
"Piccolo il mio, grande il nostro".
(ibidem, p. 571-572)

Lieto fine
E che cos'è lieto, in un fine? E perché tutte le storie ne debbono avere uno? E quale sarebbe un lieto fine per la storia del viaggio che ho appena raccontato? "...e visse felice e contento"? Ma così finiscono le favole che sono fuori dal tempo, non le storie della vita che il tempo comunque consuma. E poi, chi giudica ciò che è lieto e ciò che non è? E quando?
A conti fatti anche tutto il malanno di cui ho scritto è stato un bene o un male? E' stato, e questo è l'importante. E' stato, e con questo mi ha aiutato, perché senza quel malanno non avrei mai fatto il viaggio che ho fatto, non mi sarei mai posto le domande che, almeno per me, contavano.
Questa non è un'apologia del male o della sofferenza - e a me ne è toccata ancora poca. E' un invito a guardare il mondo da un diverso punto di vista e a non pensare solo in termini di ciò che ci piace o meno. 
E poi: se la vita fosse tutto un letto di rose sarebbe una benedizione o una condanna? Forse una condanna, perché se uno vive senza chiedersi perché vive, spreca una grande occasione. E solo il dolore spinge a porsi la domanda. 
(ibidem, p. 573)

giovedì 1 giugno 2017

Simone Fiori: "Rimini studia da capitale del cinema italiano"

Il 'solito', ma mai da dare per scontato', mercoledì da leoni. Con l'ingresso al cinema a due Euro, al Multiplex Le Befane di Rimini sono stati staccati oltre 4mila biglietti, ma nei mesi scorsi, complice un tempo ancora invernale, lo 'score' aveva sfiorato quota 7mila. 

Simone Fiori, direttore Multiplex Giometti Le Befane
“Fare questi numeri durante la settimana – racconta Simone Fiori, dal 2013 direttore della Multisala e programmatore dei cinema Giometti, circuito indipendente di 46 schermi che in regione oltre alle Befane gestisce il Cinepalace di Riccone – significa che Rimini, tra i tanti primati, ora può vantare anche quello del cinema, perché si pone allo stesso livello di città come Bologna, Milano, Roma. Facciamo spesso il primo incasso in regione e siamo il secondo cinema in Emilia-Romagna per presenze. Quando sono usciti film come '50 sfumature di grigio' o '50 sfumature di nero', per esempio, Rimini è stato il primo cinema in Italia per presenze, circa 1700 persone per quel titolo nel primo mercoledì 'scontato'. Sono cifre importanti, che ci permettono di lavorare anche sulla qualità”.

Come vede il rapporto con le sale del Centro Storico di Rimini? Molti cinema hanno chiuso, e in Italia le “monosala” sono sempre di meno.

Qualche cinema ha chiuso, altri sono ancora aperti perché hanno saputo rinnovarsi non solo tecnologicamente, ma anche dal punto di vista della programmazione. Il Multiplex Le Befane è una multisala molto amata dal pubblico ma non esiste nessun dualismo con il centro storico, anzi: è importante differenziare la programmazione e trovo davvero interessante il lavoro che fanno il Settebello, il Tiberio e la Cineteca. Ciascuno può ritagliarsi uno spazio per i contenuti che sceglie di promuovere. Con molti film sul mercato e con tante sale, inoltre, per chi vive sul territorio di Rimini, il cinema può presentare un'offerta ricchissima ed accontentare tutti. L'obiettivo non è quello di proporre lo stesso prodotto, non avrebbe senso, ma di lavorare tutti insieme per promuovere il cinema, come elemento culturale imprescindibile per la crescita di una comunità”.

La Sala 5, una delle sale d'essai del Multiplex di Rimini
Il Multiplex Le Befane o si ama o si odia: i detrattori faticherebbero a credere alla capacità di fare proposte di qualità, eppure delle dodici sale del vostro cinema, ben tre sono certificate come 'sale d'essai'. Come è possibile?

L’esperienza della famiglia Giometti, con una importante tradizione nel mondo dell’esercizio cinematografico, ci insegna a dare sempre spazio alla qualità e alle novità, programmando eventi speciali, concerti, opere, documentari. Questo genere di proposte all'inizio incidevano sul fatturato come uno 0,1%. Ora, per esempio a Riccione, anteprime,  proiezioni per le scuole e rassegne/eventi patrocinati dal Comune, valgono anche il 40% delle presenze infrasettimanali”.

Che proposte fate alle scuole e in generale a Riccione?

“Al Cinepalace proponiamo film in lingua originale sottotitolati per le scuole a 4 Euro in collaborazione con il Comune, documentari sull’arte e il teatro e pellicole di carattere culturale e con tematiche sociali. La sera, invece, proiettiamo film d'autore o d'essai, che esercitano un grande richiamo per il pubblico. Anche qui, sinergia tra matinée e proiezioni serali, ha portato Riccione ad essere la seconda città dopo Bologna per presenze con il docufilm 'Raffaello il Principe delle Arti' e per citare un successo recente, martedì scorso sala piena con ospite il regista Francesco Amato”. 

Tre sale su dodici sono iscritte all'albo dei Cinema d'Essai del Mibac: un risultato interessante, ma nessuno lo sa.

“Sicuramente su Rimini dobbiamo migliorare e potenziare la comunicazione delle nostre proposte d’autore. Ma è vero. Due sale hanno vinto il Premio d'Essai 2015 e una sala il Premio 'Schermi di qualità' per la promozione di film esclusivamente europei. Adesso stiamo aspettando i riconoscimenti per il 2016. Abbiamo puntato su film italiani d'autore, segnalati dal Ministero e considerati di interesse culturale. Ogni giovedì sera poi la rassegna 'Wanted Nights' propone film e documentari di nicchia, spesso in lingua originale con i sottotitoli. Solo a Roma, Milano e Rimini è possibile vedere certi film: penso che sia una ricchezza di cui tutto il territorio dovrebbe sentirsi partecipe”.

Esempi?

Song to song, una delle immagini del film di Malik
“Abbiamo programmato 'Tutti a casa' il documentario in inglese realizzato all'estero e dedicato al Movimento 5 Stelle. In Italia si è visto praticamente solo qui. Su Facebook un utente ha scritto: 'Quando lo portate a Roma'?” Oppure 'Olè, olè, olè' il film sul tour dei Rolling Stones: in Italia è uscito il 10 aprile, noi l'avevamo in anteprima già il 6, prima di Milano e Roma. In questi giorni poi, per la normale programmazione settimanale, ben 4 sale al Multiplex le Befane con film d’autore di cui tre prime visioni; Song to Song di Terrence Malick, Sole cuore amore di Daniele Vicari, Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni.

Rimini e Riccione sono due piazze scelte sul circuito nazionale per le anteprime con il cast e il regista a seguito.

“Ci proviamo, con grande entusiasmo. A Riccione abbiamo portato 'Il più grande sogno' di Michele Vannucci presentato al Festival di Venezia 2016 nella sezione Orizzonti, dove ha ricevuto standing ovation e 13 minuti di applausi. Un film indipendente che aveva bisogno di spazio: per noi è stato un grande privilegio poter contattare Michele ed invitarlo nelle nostre sale. Qualche settimana fa è venuta Caterina Murino con il cast di 'Chi salverà le rose'. Per ricordare alcuni importanti eventi: Fabio Martone ha presentato a Riccione 'Il giovane favoloso' davanti a 1000 ragazzi al mattino e 600 adulti la sera; per 'Il ragazzo invisibile' di Salvatores c'erano 1100 studenti e 500 adulti. Stefano Accorsi è venuto a presentare 'Veloci come il vento' davanti a 600 persone; per Fabio Cevoli e il suo 'Soldato semplice' ce n'erano altrettanti su tre sale. Fabio De Luigi ha presentato 'Tiramisù' sia a Riccione che a Rimini, con tutte le sale stracolme: in quel giorno il 10% del botteghino del film era dei nostri due cinema. Questi solo per citarne alcuni, perché mediamente ogni mese cerchiamo di portare cast e produzioni in città. La fantastica risposta del pubblico fa sì che Rimini sia percepita a livello nazionale come una piazza di grande valore. È un percorso virtuoso, perché sono poi gli stessi distributori che ci cercano per portare in Romagna le loro pellicole”.

Ma c'è anche il pubblico che va a vedere 'Oceania' oppure 'La bella e la bestia'..

Certamente: si tratta soprattutto di famiglie, che rappresentano la metà del nostro pubblico. In Italia il live action Disney è stato distribuito in 800 copie, perché c'è 'fame' di questo genere. Per le famiglie abbiamo anche il matinée al cinema, la domenica alle 10.30. Ormai ci sono 500/600 spettatori a volta. Sono numeri, anche questi, che proiettano Rimini sul podio in Italia. Ad un prezzo promozionale di 4 Euro: in un momento di crisi è importante essere vicini alle famiglie.

Come valuta l'apprezzamento per questi 'blockbuster' animati?

Molto positivamente. Sono sintomi che il cinema è ancora visto come una delle principali fonti di intrattenimento per le famiglie. Non si rinuncia all'emozione che la sala può dare ad un bambino, ad un ragazzo. Magari altre fasce d'età preferiscono guardarsi un film a casa o in pay tv o addirittura scaricare illegalmente”. 

E il pubblico femminile? Cosa sceglie?

“Il pubblico femminile per noi rappresenta una fonte importantissima di presenze in sala. Abbiamo in programmazione due giornate 'rosa' a settimana - martedì e venerdì - a 4,50 Euro a biglietto. Le donne amano vivere il cinema come punto di incontro e di ritrovo. Vengono tra amiche, per un momento sociale, e logicamente a commuoversi e a sognare davanti al grande schermo.

Anche quest'anno riproporrete 'Cinedonna'?

L'anno scorso abbiamo fatto il 'numero zero'. A fine giugno lo riproponiamo: si tratta di una rassegna di tre giorni dedicata alle donne. Verranno attrici importanti a presentare film internazionali dedicati al mondo delle donne e anche 'fabbricanti' del cinema: produttrici donna, registe, scenografe. Lo scorso anno parlarono di Cinedonna testate nazionali come 'Io Donna' e 'Gioia'. Confidiamo di ripetere il successo della passata edizione e di avere ospiti importanti, oltre ad un pubblico numeroso.

Il cinema è cultura anche a Le Befane?

Il cinema è cultura, ovunque. Ma ci vuole programmazione. Puntare sui giovani, coinvolgere le nuove generazioni, le scuole, i bambini: per vivere il cinema come luogo di aggregazione e come luogo di cultura. Lo stesso Governo Renzi ha previsto nell'App 18 che i 500 Euro potessero essere spesi anche per il biglietto del cinema. Favorendo questo spettatore giovane, lo trasformiamo in uno spettatore preparato, esigente e amante del 'luogo cinema'. Abbiamo invitato a Riccione Ivan Controneo con il film 'Un bacio' ed Andrea Molaioli con 'Slam', lungometraggi sui giovani e per i giovani, cercando di creare dietro alla magia dello schermo, un momento di riflessione e confronto. Trovo sempre bellissimo ad esempio, come per le giornate della memoria si riuniscano tanti studenti a ricordare quanto accaduto.

Se il presente la soddisfa, per il futuro cosa avete in mente?

Vorrei avere sempre più titoli in anteprima, produzioni e attori di film a Rimini e Riccione. Sono quelle iniziative che rappresentano il valore aggiunto per la sala cinema e per Rimini e che differenziano questa piazza dal resto del Paese. A Rimini è possibile incontrare i propri beniamini. È un coinvolgimento più profondo: non solo per la tecnica, ma dal punto di vista umano e dell'esperienza che solo la settima arte ti può fare vivere.

mercoledì 26 aprile 2017

Anna Rosa, da Rimini al Palazzo di Vetro dell'ONU

Sarà stata anche solo una 'simulazione' ma l'esperienza è stata indimenticabile. Anna Rosa Rubinetti, 19enne di Igea Marina, all'ultimo anno del Liceo delle Scienze Umane delle Maestre Pie di Rimini, per una settimana, dal 14 al 21 marzo 2017, è stata protagonista, con altri 5000 giovani dai 16 ai 22 anni da tutto il mondo, del programma 'Studenti Ambasciatori alle Nazioni Unite' (National High School Model United Nations). Ovvero, la più grande e completa simulazione dei processi diplomatici multilaterali dedicata agli studenti più meritevoli provenienti dai più illustri Istituti Superiori del mondo, che si riuniscono presso il Palazzo di Vetro, Quartier generale delle Nazioni Unite di New York.

Anna Rosa, come è iniziata questa 'avventura'?
Tutto ha avuto inizio ad ottobre 2016, quando i rappresentati IDA (Italian Diplomatic Academy) sono venuti a scuola a presentarci il progetto. Dopo aver passato il test di ingresso, ogni martedì mi dovevo ritrovare nel Liceo Marie Curie di Savignano, che riuniva tutti noi 25 ragazzi della zona, ma io ero l'unica di Rimini. Grazie a professori universitari che tenevano le lezioni, abbiamo scoperto come è organizzata l'Onu, la situazione economica di molti Paesi in conflitto e soprattutto, come l'ambasciatore svolge il suo lavoro.

Quando avete iniziato ad entrare nel vivo del progetto?
Ci hanno assegnato il Botswana, lo stato che io e la mia compagna dovevamo rappresentare nella commissione dell'Unione Africana (AU). La simulazione riproduce integralmente la struttura dell'ONU e impegna i ragazzi a studiare la politica, la geografia e l'economia del Paese da rappresentare. Scopo dei partecipanti infatti è farsi portavoce degli interessi del Paese assegnato, all'interno dei singoli organi e agenzie dell'ONU.

Di cosa vi siete occupati, in particolare?
In Italia abbiamo preparato un resoconto sulle condizioni economiche e sociali di quel Paese, riguardo ai problemi che la nostra commissione dell'Onu ci aveva assegnato: il bracconaggio di flora e fauna e il diritto alla libertà di stampa.

Poi sei volata negli USA.
Questi temi li abbiamo poi discussi proprio a New York, nel Palazzo di Vetro, assieme agli altri ragazzi provenienti da tutto il mondo, cercando proporre soluzioni per i problemi assegnati. I primi tre giorni li ho trascorsi discutendo e confrontandoci, per arrivare poi a formulare una proposta che potesse mettere d'accordo anche i rappresentanti degli altri stati. Il quarto giorno infine, siamo andati a presiedere nell'Aula dell'Assemblea Generale, dove i rappresentanti di ciascuna commissione hanno esposto le risoluzioni ottenute. Gli studenti, in qualità di delegati, hanno dovuto rivestire il ruolo non solo di diplomatico, ma anche di giurista, di economista ed esperto di relazioni internazionali.

Come è andata?
È stato emozionante sentire le proprie idee presentate alla platea!

Il resto della settimana come l'avete trascorsa?
Ci siamo dedicati alla visita di New York: dal MOMA al MET, dal Guggenheim al Museo di Storia Naturale, non dimenticandoci certo della visita alla Statua della Libertà e della vista mozzafiato della città di notte dall'Empire State Building!

Come è stato il rientro in Italia?
...vissuto con grande rammarico!

Il bilancio di questa esperienza?
È stata fantastica, unica e l'ho scoperta solo grazie alla mia scuola! Per questo desidero ringraziare la Preside del Liceo delle Maestre Pie, sr. Anna Maria Rossetti, per avermi dato questa grande opportunità che rimarrà per sempre impressa in me.

Da grande cosa vuoi fare? L'ambasciatrice?


Beh, il mio desiderio sarebbe quello di diventarlo anche se la strada è davvero molto lunga! Infatti sto pensando di iscrivermi, all'Università, a Relazioni internazionali. Ci voglio credere, rimanendo comunque coi piedi per terra!

lunedì 24 aprile 2017

Le regole di Italo Calvino per i nuovi scrittori

In un articolo di Achille Scalabrini pubblicato sul Resto del Carlino di qualche giorno fa, comparso nella pagina 'Freschi di stampa' all'interno della rubrica 'Carta bianca', si ricordano quelle che per Italo Calvino erano tre regolette d'oro, all'epoca in cui lavorava come redattore per Einaudi, per stabilire se un manoscritto meritasse di diventare un libro.

Eccole.

1-Se ha un linguaggio
2-Se ha una struttura
3-Se fa vedere qualcosa, possibilmente qualcosa di nuovo

μηδὲν ἄγαν

venerdì 21 aprile 2017

Gian Luca Giardi. Ritorno alla terra

Giardini urbani, architettura 'verde', pareti 'vive' anche dentro i centri commerciali. E tanti giovani che studiano per tornare alla terra. Un richiamo ideale, quasi un 'mitico' ritorno alle origini sulla base di una spinta anche culturale, come il desiderio di ricominciare ad avere un rapporto vero con il mondo, non mediato dalla tecnologia. Certo: anche in agricoltura la tecnologia serve. Per lavorare meglio, per vendere, per farsi conoscere. A San Marino, Gian Luca Giardi, 28 anni, da sei è impegnato a portare avanti l'azienda di famiglia. Un giovane sammarinese di Faetano, alla terza generazione di agricoltori, che non ha esitato a rimboccarsi le maniche. Ha studiato e, una volta pronto, ha iniziato a ristrutturare l'attività, ricominciando praticamente da zero. Sposato con Monica dal 2015, lo incontriamo nel campo di Faetano, sotto un sole cocente, ai primi di aprile. L'orto si trova in Strada Quinta Gualdaria, nel castello di Borgo Maggiore (mentre il centro aziendale e la stalla si trovano a Corianino nel castello di Faetano a distanza di pochi km). Una piccola casettina di legno è stata terminata da poco: lì sarà il luogo dove verranno venduti gli ortaggi prodotti direttamente alle persone che scenderanno in campo. Un altro investimento importante, in termini economici, oltre a tutte le ore di lavoro che servono per fare l'agricoltore.

Tutto questo sole che effetto ha sulla terra? Ci sono delle crepe enormi...
Veniamo da più di quaranta giorni ininterrotti di sole, in una stagione solitamente piovosa, perciò il terreno risulta spaccato come succede solo in piena estate. Noi come azienda ortofrutticola siamo dovuti ricorrere ad irrigazione d'emergenza.

Esiste la 'pianificazione' in agricoltura?
La pianificazione esiste e segue la stagionalità delle colture, ciò che ovviamente non si può pianificare sono gli agenti atmosferici avversi e i danni alle coltivazioni dovuti a insetti, funghi e animali selvatici.

Hai scelto di frequentare Agraria a Cesena e dal 2011 sei attivamente impegnato nel lavoro nei campi. Ma qual è stato il percorso di studi che ti ha condotto fino qui?
Ho scelto di frequentare la scuola superiore I.T.A.S (Istituto tecnico agrario statale) perché spinto da forte passione per la terra volevo conoscere e capire le basi scientifiche delle pratiche che ho visto applicare nell'azienda di famiglia. Una volta diplomato le stesse ragioni mi hanno spinto a proseguire gli studi all'Università di Bologna, Falcoltà di Agraria. In un futuro non troppo lontano mi auguro di terminare la carriera universitaria.

Prima di te, tuo nonno e tuo padre, hanno fatto lo stesso lavoro. Sono stati loro a indicarti la via?
Penso che il lavoro dei campi sia impresso nel nostro DNA. Scherzi a parte sicuramente sono nato e cresciuto respirando agricoltura, ma grazie agli studi e alla voglia di migliorarmi, sono riuscito a capire dove sbagliavano i miei predecessori. Fondamentale le pratiche sono rimaste invariate, la tecnologia ne ha aumentato l'efficienza.

Quali sono le caratteristiche dell'agricoltura oggi? Cosa bisogna sapere?
Un agricoltore moderno deve avere un ampia conoscenza, per ottimizzare al meglio il lavoro. Non è solo la conoscenza della terra o delle colture ma deve spaziare dalla veterinaria alla meccanica, dalla meteorologia all'idraulica. La tecnologia è sempre più importante anche in agricoltura quindi cerco di tenermi al passo con i tempi ma non è sempre facile.

Come si chiama la tua azienda agricola e chi collabora con te?
Giuridicamente è denominata Azienda Agricola Giardi Gian Luca. Terra e Cuore è il nome che abbiamo scelto per il progetto orto con produzione e vendita diretta di ortaggi. Fortunatamente ho una famiglia molto presente. Mattia, mio fratello, è il mio braccio destro. Mia moglie Monica e mio suocero Giovanni mi aiutano principalmente nell'orto.

Qual è la tua giornata tipo? A che ora ti alzi? Cosa fai?
La giornata tipo varia a seconda della stagione, in questo periodo, ovvero l'inizio della Primavera, mi alzo alle 6.30 per essere in stalla alle 7.15. Avendo anche gli animali il primo lavoro è quello di accudirli, poi fino alle 12.15 in campo. Pranzo e alle 13.45 riparto per l'orto, dove fino alle 18.30 faccio vendita diretta dei miei ortaggi (ovviamente in estate gli orari sono diversi e si resta in campo fino alle 19.45). Finito con l'orto ritorno alla stalla fino alle 20.

Cosa coltivi e cosa allevi?
Gli ettari totali sono 27. Di questi, 20 sono coltivati a erba medica, che ci serve come foraggio per gli animali, 3 a cereali, 2 a cipolla da seme, 3 a ortaggi. Allevo galline da uova, conigli e bovini da carne. Coltivo ortaggi stagionali: ad esempio in questo periodo fava, piselli, carciofi, aglio e cipolla.

La crisi economica e la crisi delle risorse, secondo te, riporteranno al lavoro nei campi altre persone?
Non molte. La terra è faticosa,il lavoro deve essere costante e servono investimenti importanti è il risultato economico non è immediato, fattori non di poco conto a mio avviso. Comunque penso che alcuni giovani siano 'tornati alla terra' in parte grazie alle agevolazioni europee, ma soprattutto perché hanno saputo cogliere opportunità non pienamente sfruttate fino ad oggi.

Cos'è per te l'agricoltura e che rapporto hai con la natura?
L'agricoltura è un settore strategico per uno stato. Oltre a produrre alimenti, cura il territorio e ne limita il dissesto idrogeologico: tutti argomenti di pubblico interesse. Il mio rapporto con la natura è di assoluto rispetto: tutte le cose presenti in natura hanno un ruolo ben preciso e importante per l'agricoltura.

Che progetti hai per il futuro?
Il progetto più ambizioso che abbiamo in famiglia/azienda e la creazione di un laboratorio per la lavorazione degli ortaggi che produciamo.

Tra 20 anni dove ti vedi?

Tra vent'anni mi vedo sempre a lavorare su questi terreni con mio fratello, mia moglie e i miei figli.

venerdì 10 marzo 2017

Yeong-hye è 'La vegetariana' di Han Kang

Ho letto La vegetariana di Han Kang perché sono vegetariano. Mi avevano 'avvertito' che non sarebbe stato piacevole, ma se un libro è troppo comodo, che gusto c'è a leggerlo? Quando devo sdrammatizzare, leggo Asimov o Chandler. Una volta leggevo Pennac, ma adesso ho dato via tutti i libri della saga di Malausséne: non li sento più 'miei'.
Ecco, in quattro righe, non ho detto nulla sul libro.

Non è un libro particolarmente difficile. E' scritto bene, a tratti mi ha ricordato la scrittura di Agota Kriztof, ma solo a tratti. La trama è gestita con maestria: tre movimenti, tre capitoli, con tre punti di vista: il marito, il cognato, la sorella di Yeong-hye, che è la protagonista, è la vegetariana. Ma a lei l'autrice non ha dato facoltà di prima persona, di prospettiva: per cui il lettore ne sa quanto gli altri personaggi sul perché sia diventata vegetariana e su cosa le frulli* per la testa.

E' vero, ha fatto un sogno in cui, immersa nel sangue, in una foresta, divorava animali: una volta sveglia, quasi sotto choc, decide di non mangiare più carne. Una scelta accettabile. Oggi in tanti scelgono di non mangiare più carne per motivi etici, di salute, di salute ambientale.

Ma il suo totale rifiuto per la carne la contrappone a tutta la sua famiglia. Con conseguenze grottesche: il suo 'pacifismo' alimentare scatena rabbia, incomprensioni, violenza da parte di tutta la sua famiglia. Mentre il percorso di Yeong-hye è netto, semplice, sereno: quasi con 'assenza' la vediamo liberarsi della carne e poi dei vestiti e poi delle convenzioni. Percepisco una forma cruda di libertà. Un volare alto, indifferente, ma disumano. Oltre-umano?

Il libro non ha un finale consolatorio. Tutti i personaggi mostrano un animus giudice nei suoi confronti, diventano 'carnefici'. E lei, finisce per essere - come mi suggeriva qualcuno - solo un 'pezzo di carne'. La sua anima resta insondabile, le sue motivazioni non comprensibili fino in fondo. Non lo capiscono il lettore, gli altri personaggi, lei stessa a volte sembra inconsapevole di cosa stia vivendo. L'avrà capito l'autrice? Per non sbagliare, il libro ha vinto il Man Booker Prize 2016. La curiosità: era stato edito nel 2007. Si vede che qualche editor famoso se ne è innamorato e ha deciso di lanciarlo. Un buon libro, con una trama interessante. Forse la metafora di come le persone diventino spietate contro ciò che non comprendono e non si conforma allo status quo.
Se così, allora: bello.

*Questo testo, scritto in un orario in cui il giudice interiore dorme, presenta a tratti scelte linguistiche e di sintassi piuttosto discutibili, anche 'basse' direi. Ma tanto 'sto blog non lo legge nessuno.

venerdì 3 marzo 2017

Purity, a novel - not the best ever - by Jonathan Franzen

- Se nel titolo già scrivi che questo romanzo non è uno dei suoi migliori, stai già dicendo quello che pensi del libro. Non dovresti.
- Hai ragione, ma io lo penso e questo blog lo curo io. E' chiaro che mi posso esprimere liberamente.
- Certo. Ma in astratto. Perché se tu hai l'ambizione di essere universale e di arrivare a tutti, non 'toccherai' tutti quanti, perché la tua scelta già ti inimica quelli che ritengono Purity IL capolavoro di Jonathan Franzen. A loro non arrivi.
- Ma l'universalità è una bufala. Se pensi di avere un messaggio 'universale' da dare a tutti, non arriverà a tutti. Magari risulterà indifferente. Pensa ad un autore che ti piace: piace a tutti? E se piace a tutti, non ti sembra sospetto?

Questa conversazione che si svolge nel mio cervello, o nel mio cuore, mentre penso all'ultimo romanzo di Franzen, restituisce pallidamente la cifra del libro stesso, ed è anche l'unica critica formale che muovo all'opera. Non posso dirmi un esegeta di Franzen, ma ho letto tutti i suoi libri (tranne il primo). E per libri intendo anche i saggi etc. Quindi conosco il suo stile, il periodare, le tematiche che ritornano, la cura che ha nel tratteggiare personaggi e plot. 


La critica formale. In Purity sono messi in scena straordinari personaggi: profondi, complessi, intimamente legati gli uni agli altri. Franzen è un maestro nel gestire la trama, nel farli muovere attraverso il tempo e lo spazio, allacciando e slacciando relazioni. In questo è insuperabile. Quando si butta a capofitto - per righe e righe - a descrivere quello che sta accadendo nella testa, o nel cuore, di ciascun personaggio - Andreas Wolf, Tom Aberant, Purity Tyler, Penelope Tyler, Annegret, Collette, etc. - Franzen si Franzenizza. L'impressione è che i personaggi siano troppo scavati, che pensino troppo, che i loro movimenti interiori siano indagati in maniera così puntuale (universi dove emergono profonde contraddizioni e problemi dilanianti e stranianti) da diventare paradossali. L'effetto che Franzen ottiene quando entra nella testa di Wolf e racconta cosa lo ha fatto diventare quello che è, e tutto quello che pensa (sulle persone, sulla Germania dell'Est, su Dio, sulle donne, sul comunismo, sulla sua famiglia, sulla Stasi...) è quello di stordire il lettore. Davvero è così complicato? Davvero gli uomini, le donne, sono così complicate? E quando ti poni la domanda sulla credibilità dei personaggi, è già venuta meno la 'sospensione della credulità' che, invece, ci serve per empatizzare coi personaggi e credere che il loro mondo sia reale quanto il nostro. Anzi, che sia il nostro.

Questo è ciò che mi è accaduto leggendo alcune pagine di Purity. Alla fine, come ho detto a chi me lo ha chiesto (come è il libro?), delle 637 pagine dell'edizione italiana, forse un centinaio si potevano tagliare.

Il titolo, il tema. La protagonista femminile del libro di Jonathan Franzen è Purity 'Pip' Tyler. Il nome le è stato dato dalla madre, Penelope, che non le ha mai rivelato il nome del padre. Pip desidera conoscerlo, ma la madre rifiuta anche solo di parlare dell'argomento. E' questo uno dei 'motori' dell'azione che porterà Purity fino in Bolivia, sulle tracce dell'identità del padre. La purezza in questo caso è quella desiderata dalla madre che con Pip ha voluto ricominciare da zero, cancellando il suo passato: un nuovo inizio, un nuovo Eden. E Purity manifesta nel suo essere una purezza d'animo, pur vivendo in una casa occupata e provando attrazione per un uomo sposato. Andreas Wolf era in cerca di purezza, in fuga da un passato delittuoso e dalla Stasi, da una famiglia opprimente: la ricerca di redenzione passa per lui attraverso la creazione del Sunlight Project, che opera un po' come Wikileaks di Julian Assange. Wolf vuole 'illuminare' e portare alla luce al tempo stesso, ed è considerato un puro, pur non essendolo. Tom Aberant ha invece aperto il Denver Indipendent, un giornale online rigoroso, dove cerca di fare giornalismo utile, sociale, d'inchiesta. Anche lui, considerato uomo incorruttibile e tutto d'un pezzo dovrà fare i conti con un passato che ritorna.

Il tema della purezza aleggia su tutto il romanzo. Nelle vite dei personaggi, nei loro tentativi di fare qualcosa di buono, frustrati dalla natura stessa dell'uomo, alla quale sembra impossibile sottrarsi alla corruzione, al male. Un mondo dove gli adulti non sono guide credibili e sono mossi, in realtà, da istinti bassi, talvolta bassissimi. I giovani - Pip, un ragazzo autistico, un ragazzo disabile - invece sembrano in grado muoversi nella trama del romanzo e sulle strade della vita più responsabilmente, con gli ideali scossi dagli eventi ma ancora intatti. E alla fine, banalmente - ma questo on è mai banale - è l'amore, che si presenta a Pip con sembianze note ma nuove al tempo stesso, a chiudere la storia. Sono gli occhi di Purity ad essere cambiati e a poter cogliere, ora, una nuova possibilità di vita, di speranza, in un mondo di relazioni fallimentari e di ideali traditi.

Happy ending? Ho sempre trovato una chiave di lettura positiva ai romanzi di Jonathan Franzen. Da Forte movimento a Le correzioni a Libertà fino a Purity, la fine della storia si apre alla possibilità di una vita migliore. Non per tutti i personaggi del libro, ma per qualcuno sì. Dopo la morte del marito, per Enid si apre una nuova prospettiva, anche se si trova già in terza età avanzata. E i suoi tre figli, dopo aver attraversato il romanzo e mille peripezie, sono cambiati, forse più consapevoli se non migliori. La vita, insomma, insegna e non scorre invano. In Libertà impossibile non amare il finale straordinario, dove la coppia si ricompone in un crescendo psicologico emozionante e straordinario, dove anche il particolare di un'immagine su un cancello rende giustizia alla storia e ai suoi personaggi. In Purity, Pip tra le braccia di un ragazzo, esitante, appassionato, 'puro' come lei, può sperare, se non altro, di far meglio dei suoi genitori.

giovedì 16 febbraio 2017

Robinson Crusoe by Daniel Defoe: finalmente

Un rapido pensiero. A parte la soddisfazione di aver finalmente letto uno dei libri più citati e (forse) letti di ogni tempo, se non altro uno dei capisaldi della letteratura avventurosa. Ma Robinson Crusoe non è un libro per ragazzi, perché per tematiche e quel soffio di spiritualità che lo attraversa, parla molto anche ai 'grandi'. La storia è arcinota: un giovane, Robinson Crusoe, disobbedendo al padre che vedeva per lui una carriera nella City, si imbarca, all'inseguimento del suo destino, spinto da una irrequietezza che sembra dirgli: più in là.

Le peripezie sono incredibili: viaggia, naufraga, scampa da morte certa, riparte fortunosamente, arriva in Brasile, crea una piantagione, la gestisce, riparte in nave, naufraga sull'isola dove resterà solo per 24 anni, e in compagnia di Venerdì per gli ultimi tre, prima di rientrare - sempre fortunosamente - in patria. Più ricco, più saggio, ma sempre pronto a ripartire. Infatti il libro si chiude con l'annuncio, forse, di un nuovo resoconto di tutto il resto delle sue avventure, capitate nei dieci anni successivi. Nonostante si tratti di un classico, che non avevo ancora letto, e che lo stile - prima persona singolare - e l'ambientazione non siano, ovviamente, tra i miei preferiti, il fatto di aver trascorso il tempo della lettura a rosicchiare le unghie, cosa che di solito non faccio, significa o che avevo fame, o che ero sulle spine.

La narrazione infatti procede spedita di avvenimento in avvenimento e la curiosità di scoprire che accadrà dopo diventa con il passare delle pagine una spinta formidabile. Anche coltivare un campo di riso su un'isola sperduta diventa qualcosa di avventuroso ed interessante quando l'autore - Defoe fa rima con Crusoe - è in grado di portarti lì, ad osservare Robinson che cambia, matura, cresce. Fino quasi a diventare 'credibile', nonostante l'effetto 'grottesco' che si viene a creare quando davvero, in certi punti, le peripezie che gli capitano finiscono per sembrare davvero 'troppe', fin quasi al punto che la 'sospensione della credulità' vien meno.

La scelta di Robinson Crusoe arriva dopo la lettura - rapida, bruciante, appassionata - di "Più lontano ancora", la raccolta di saggi, testi vari, di Jonathan Franzen, nel quale è narrato - nel racconto che da' il titolo alla silloge - del viaggio dell'autore verso un'isola remota, in compagnia di una parte delle ceneri dell'amico David Forster Wallace, e del libro di Defoe: Robinson Crusoe. Un racconto nel quale Franzen conclude, a proposito di se stesso, che il desiderio di fuggire dal 'mondo' gli aveva fatto capire, una volta solo in mezzo alle intemperie su un'isola praticamente disabitata e selvaggia, che il 'mondo' gli mancava e che il 'mondo' era, alla fine, il suo posto. 

Per me, che in questa fase della mia vita, sono solleticato dall'idea di un abbandono del 'mondo', per un ritiro bucolico all'insegna dell'autoproduzione, della permacultura, della bioedilizia, e magari tutto questo in condivisione - comunità - con amici o persone che condividono la mia / nostra visione del mondo, Robinson Crusoe è stato un piacevole divertissement, uno svago. Dove più che le azioni violente con le quali il protagonista riusciva, per esempio, ad uccidere i cannibali che, dopo oltre venti anni di solitudine, si erano recati sulla spiaggia per consumare un banchetto a base di carne umana (ma solo di nemici vinti in battaglia), ciò che assorbiva tutta la mia attenzione erano le descrizioni della costruzione della casa, lo scavo della grotta, la lavorazione del legno per il varo della nave, la pianificazione delle coltivazioni, la creazione di recinti e palizzate, di pascoli per il bestiame. La fase della semina, della mietitura; lo studio delle stagioni e del terreno, dell'andamento delle piogge, per capire quando e come agire per ottenere dal terreno la massima resa. Questo è ciò che, più del resto del libro, mi ha affascinato. Non il mito dell'uomo che, in perfetta o quasi solitudine, riesce a vivere facendo uso del proprio ingenio - come Cyrus Smith & co. nel libro di Jules Verne L'isola misteriosa - ma le modalità per domare la natura e servirsene rispettandola.

Piacevole sorpresa, inoltre, l'approfondimento spirituale: Robinson scopre l'importanza del rapporto con Dio. Per arrivare a comprendere che, tutto ciò che gli è capitato, in una lettura che non può che essere fatta a posteriori, era stato un dono di Dio: ogni evento aveva trovato la giusta collocazione in una storia di Provvidenza celeste. Si coglie bene quando il capitano inglese della nave ammutinata, verso il finale, gli dice che Robinson è un dono di Dio per lui, perché lo ha salvato da morte certa e lo ha aiutato a recuperare la nave; così Crusoe capisce che la sua vita può avere un senso, per gli altri, che lui stesso non era in grado di dare a se stesso. Il protagonista, mentre legge e impara i testi della Bibbia - l'unico libro, tra l'altro non suo, che si era salvato dal naufragio - cambia. Dopo una malattia che, all'inizio del romanzo, già naufragato sull'isola, lo colpisce fino quasi a morire, Robinson - che sembra dal punto di vista religioso un puritano - si rende conto della sua fragilità: ha domato la natura, ha costruito la sua casa, ha addomesticato animali. Ma il fatto di saper provvedere a se stesso compiutamente, non è ragione sufficiente per poter pensare di sopravvivere. Si ha sempre bisogno di un altro. Robinson scopre cioè che le sue abilità sono talenti, che ciò che riesce a fare è un dono, che la sua stessa vita acquista un senso in relazione ad un altro: che sia Dio, che sia il prossimo.