mercoledì 3 febbraio 2010

Come Alexander Portnoy

Alexander Portnoy è il protagonista del romanzo-sfogo di Philiph Roth intitolato Lamento di Portnoy (Portnoy's complaint, 1967): ebreo di Newark, come lo sono quasi tutti i protagonisti dei romanzi di Roth, Alexander ha 33 anni e dalla vita ha tutto quello che un uomo può desiderare: successo nel lavoro (è avvocato e arriva a ricoprire un ruolo importante nell’amministrazione pubblica della città di New York); successo con le donne.

Il romanzo è strutturato come un lungo complaint, un monologo che il protagonista tiene dalla prima all’ultima pagina: a poco a poco si intuisce che non è un flusso di coscienza interiore alla Joyce, ma che Alex è seduto di fronte ad un dottore, ad uno psicologo, in quella che ha l’aria di essere una prima seduta di terapia.

Il protagonista sta ripercorrendo tutta la sua vita, dall’infanzia all’adolescenza sino all’età matura, spaziando dai rapporti con i suoi genitori a quello con sua sorella, dal racconto delle avventure con i suoi coetanei, dal pensiero attorno alla religione ebraica e a quella cristiana. Ma soprattutto, nel lungo sfogo, Portnoy mette in luce il suo rapporto con le donne. Alexander-Roth non risparmia al medico-lettore i particolari più anatomici della sua vita sessuale: dalla scoperta dell’altro sesso, del pene e della masturbazione; al racconto tutto maschilista, inevitabilmente perché è suo l’unico punto di vista messo in scena, delle sue relazioni, che hanno per protagonista quasi unica una donna chiamata Scimmia, che con Alexander avrà una lunga, appassionata, morbosa, relazione a sfondo prettamente sessuale, dove entrambe si diletteranno alla scoperta dei piaceri più stravaganti, dando vita a performances più pornografiche che sessual-sentimentali. La Scimmia – che scopriremo avere un nome, Mary Jane Reed – è una creatura leggera, che vive apertamente e senza inibizioni il rapporto con il proprio corpo, con la propria vagina, e con il pene di Alexander.

Di intelligenza modesta, la Scimmia si dimostra invece in diverse occasioni molto al di sopra, anche moralmente, per il candore e la purezza di sentimento che mette in campo, a Portnoy, che invece la seduce, la sfrutta, ne fa quel che vuole e poi la abbandona. La scelta di lasciare Mary Jane è del tutto intellettuale: troppo stupida, illetterata, troppo meschina, troppo animalesca e inferiore per poter incarnare la donna giusta di cui Alexander è in spasmodica ricerca (anche se la sua storia con l’altro sesso è costellata di scopate, promiscuità, onanismo, una continua fuga dalla donna presente verso un prossimo incontro). Mary Jane è l’unica – con una forza che riesce ad emergere anche attraverso le parole di condanna di Portnoy – a mettersi davvero in gioco, a rischiare tutta se stessa per la persona che ama. Alexander termina il suo sfogo con un grido orgasmico e doloroso, ma la battuta finale del libro è affidata al terapeuta che gli dice, più o meno: “Atesso sì possiamo antare a inkominciare”, quasi a rimettere in discussione l'intera confessione-lamento.

Una riflessione, in finale. Personale. La lettura del libro non mi ha entusiasmato, perché questo Lamento mi è parso in certi punti un po’ stiracchiato, esagerato, perverso. Non poteva in alcun modo essere innocente – non c’è innocenza – perché a rammentare il tutto, anche i ricordi del bambino, è sempre Alexander adulto, che rivede la sua vita con occhi deformati dalle sue esperienze, uomo devastato dalla lussuria, da basse passioni, dall’ossessione sessuale, dall’ambizione, dall’intellettualismo metro di paragone di ogni cosa. Squallido nella sua autoreferenzialità assoluta, senza via di uscita, senza pentimento. Il ritratto di un ebreo distrutto dall’ebraismo vissuto come pura esperienza mentale, incapace di dare ascolto al suo cuore, che forse nemmeno ha.