lunedì 13 luglio 2009

Virginio Cupioli e l'albero della memoria

Rivive la Rimini degli anni ’30 grazie al volume L’albero della scala, recentemente dato alle stampe da Virginio Cupioli, riminese nato nel 1926: una vita da ferroviere in giro per l’Italia; una passione per le lettere, la fotografia, la cultura portata avanti da autodidatta e con caparbietà. E una memoria prodigiosa, che lo ha reso testimone unico di una Rimini scomparsa e della sua ‘povera’ gente, che si ritrova integra, vera, nelle pagine del suo libro.

Via Fogazzaro, Rimini, anni ’30: la ‘via degli ortolani’, per i bambini nati su quella strada, rappresenta tutto il mondo. Un mondo di giochi fra amici, di avventure e di imprese: un universo di volti e di storie che si fissano per sempre nella memoria del piccolo Virginio che, sino al 1938, vivrà in quei campi un’infanzia spensierata, magica, serena. Che oggi torna lucidamente nelle pagine del libro che, ottant’anni dopo, ha scritto e stampato in proprio, come regalo ai nipoti, alle generazioni future, in ricordo di un’epoca che non c’è più.
La sua famiglia era composta dal babbo, garzone per contadini prima e muratore poi; dalla mamma casalinga; dai quattro fratelli: Virginio ha un’intelligenza vivace e acuta che gli consente di seguire gli studi sino alla terza avviamento industriale; quindi, grazie ad un corso di telegrafista, il primo marzo del 1943 entra come telegrafista nelle Ferrovie dello Stato. Da qui parte la sua carriera nelle ferrovie come Capo Stazione Superiore Dirigente di Circolazione. Un lavoro che lo porterà in Sicilia, Calabria, Alto Adige, Toscana, e in quasi tutte le stazioni dell’Emilia e la Romagna.

Virginio Cupioli: come è arrivato alla scrittura alla soglia degli ottant’anni?
Veramente mi sono messo a scrivere perché mi è sempre piaciuto esprimermi, specialmente attraverso la scrittura. Anche quando lavoravo nelle ferrovie, i colleghi venivano da me quando c’era da comporre una lettera, perché io lo sapevo fare bene, secondo loro.

Un talento naturale, allora.
Fin da ragazzo mi piaceva conoscere. In casa parlavano solo in dialetto: quando ho iniziato ad andare a scuola facevo perciò fatica a capire le parole. A mio padre chiesi un vocabolario, ma non aveva i soldi per comprarmelo. In italiano però avevo sempre la sufficienza, anche se non lo parlavo bene. Non appena entrato in ferrovia, ho fatto dei corsi per corrispondenza in italiano e cultura. Poi, ovunque fossi in Italia, mi fermavo a vedere i monumenti, i musei, le biblioteche del luogo, perché mi piaceva. Sono sicuro che se fossi nato in un ambiente culturalmente ed economicamente diverso, avrei seguito scuole regolari.

Perché ha sentito l’esigenza di scrivere un libro?
Non ho realizzato il libro per essere uno scrittore, ma è stato un pensiero che ho avuto. Io sono sempre stato un osservatore, ascoltavo davvero la persona che avevo di fronte, cercavo di capire cosa mi stesse dicendo. Ho deciso invece di trasformare i miei ricordi di quegli anni in un libro perché avevo in testa tutto il mondo di allora, che oggi è scomparso. Ho pensato di scrivere per i miei nipoti un libro, perché lo potessero leggere e potessero apprendere cosa fosse la vita in quel periodo.

Da dove ha inizio il suo libro?
Nel libro racconto le storie nate attorno alla via Fogazzaro. Fino al 1938 abbiamo vissuto lì in quella che era nota come la “via degli ortolani”. Era tutto campo. In quei dodici anni ho vissuto un periodo meraviglioso. Poi nel 1938 mi sono trasferito in città, perché mio padre aveva aperto la trattoria “I topi grigi” in via Bufalini. Nel tempo, ho capito che mi ero sentito strappato da quel luogo magico. Nella nuova casa, ho iniziato a conoscere la città, ad osservarla con curiosità, a partire dai tipi umani che frequentavano la trattoria. Non tanto i borghesi: ma i derelitti, i senza casa che andavano a dormire nel dormitorio.

Qual è il cuore de L’Albero della Scala?
Nel libro c’è la lotta per la vita, per la sopravvivenza. E ho voluto raccontare la vita come un acquerello, com’era allora: non solo la mia, la nostra, della mia famiglia, ma di tutti. Perché tutte le vite erano uguali.

Le storie che lei racconta si fermano al 1940, quando aveva 14 anni, in piena seconda guerra mondiale.
Sì: ho ancora tanti episodi da raccontare del periodo dopo l’inizio della guerra, che testimoniano lo stato sociale, non tanto i bombardamenti. A Rimini c’è stata la guerra civile: quando è caduto il fascismo abbiamo avuto paura delle ritorsioni. C’erano vendette, sevizie e purtroppo anche impiccagioni. Una lotta dell’uomo contro l’uomo che è meglio che una società non la viva mai.

Che ricordi ha, fra i più vivi, di quel tempo?
L’inverno del 1944 1945: la fame. Il fronte era sul Senio e ho potuto vedere con questi occhi cosa in cosa può trasformarsi un popolo se ha fame. Ho visto donne andare con i militari stranieri per un pezzo di pane. Davanti alla stazione dei treni nel punto tappa alleato i camion andavano e venivano carichi di militari e ragazze. Un ricordo indelebile: la fame annulla tutte le dignità.

Nel libro (e a corredo di questo articolo) ci sono anche tante immagini che ha scattato personalmente: da dove nasce la sua passione per la fotografia?
Nel 1956 quando ho comperato una Vitomatic II Voigtlander colorskopar: era una macchina che costava più di un mese di paga. Un cliente della trattoria di mio padre, nel 1938, mi aveva donato una Agfa a soffietto, ma mi era stata rubata durante il passaggio del fronte. Ho sempre amato fotografare le persone, cercare in esse qualcosa di particolare. E mi piace tuttora.

Da dove nasce il titolo del suo libro L’albero della scala?
Quando eravamo bambini andavamo a giocare presso un fosso d’acqua con attorno degli alberi. Un albero nella crescita non era andato verso l’alto, ma obliquo. Era molto largo e tutti riuscivano a salirci, anche le bambine. Era il nostro luogo di gioco preferito, ma era anche pericoloso perché sotto scorreva l’acqua.

Nel libro, oltre ai racconti, c’è anche molto dialetto.
Il dialetto è il mio pane, fin da bambino: mi riporta alle mie origini. In casa mia ho sempre parlato dialetto e mangiato piada, dalla mattina alla sera. Ecco perché ho scritto in dialetto e mi piacciono le espressioni dialettali. Sono molto più colorite ed espressive dell’italiano. Mia zia diceva: “Um toca mandè zo una pigra”, cioè: “Mi tocca mangiare una pecora”. Era quando doveva fare buon viso a cattivo gioco. Perché usava questa espressione campagnola? Perché nelle campagne tutte le famiglie avevano una pecora per fare il formaggio e il latte. Questa pecora, una volta vecchia, veniva ammazzata per essere mangiata, ma la carne era dura dura. A mandarla giù si faceva molta fatica, soprattutto per chi non aveva più denti!

Una bellissima ‘canzone’ dialettale che ha composto e messo a suggello della sua opera, riguarda l’amore fra Ugo d’Este e Laura Malatesti detta la Parisina.
Quando nel 1948 ho fatto il militare a Ferrara nella locale stazione radio, passavo le ore libere dentro il castello estense. Il custode ci ha portato a vedere le prigioni di Ugo e Parisina, raccontandoci la loro storia. In seguito ho approfondito la loro vicenda studiando dizionari, enciclopedie. La loro storia mi ha sempre commosso molto di più che quella dantesca di Paolo e Francesca. Paolo e Francesca erano adulti, sposati. Ugo e Parisina erano giovani, avevano solo 20 anni; erano nel fiore della giovinezza con la purezza del primo amore.

Una storia struggente, con un bellissimo finale. Ce lo recita?
I se e va e mond, l’amor ad Parisina, / l’è l’amor d’ades, a dir, at prima, / da quand e sorz e sol per l’eternità / tot us ferma, senza felicità. / Dop cu sa cnusu l’amor e la su potenza / se su calor, tla vita un spò fe senza, / quii chil zerca iè fortuned sil trova, / le sa un minut, per avè la vita nova.

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