mercoledì 14 ottobre 2009

Marcus Messner

Marcus Messner è un ragazzo americano di origini ebraiche nato nel 1932 che ha partecipato alla guerra di Corea nel 1952. La sua storia ci viene raccontata da Philip Roth nel suo ultimo lavoro, 'Indignazione', appena uscito in Italia. Marcus è un esemplare raro di virtù e abnegazione, che ha capito che "nella vita va fatto ciò che si deve fare" pulendo le interiora dei polli nella macelleria kosher di suo padre a Newark. Dopo quelle che noi chiameremmo scuole superiori, si iscrive al Robert Treat, un collegio vicino a casa, dove studia con il massimo profitto, continuando ad impegnarsi, come sempre, per giustificare il grande sforzo, anche economico, che i suoi genitori fanno per mantenerlo.

La crescente ansia del padre, che ha un'immotivata paura di perdere il figlio - magari proprio in guerra, in Corea, dove due cugini di Marcus aveva già rimesso l'anima a Dio; oppure a causa di 'cattive compagnie', di guai non ben precisati in cui si sarebbe potuto cacciare (in fondo, è un adolescente sottoposto a tante tentazioni) - rende la vita di Marcus insopportabile. Dopo l'ennesimo confronto con il padre, il ragazzo lascia il Robert Treat e si iscrive a Winesburg, nell'Ohio, a ottocento chilometri da casa.

La serie di eventi, del tutto fortuiti, che seguono a questa decisione, porterà la vita di Marcus su crinali del tutto inattesi. Il libro si chiude a pagina 136 con uno straordinario, asciutto, inerosabile epilogo: "Sì, il buon vecchio e spavaldo "Vaffanculo" americano, e questo è quanto per il figlio del macellaio, morto tre mesi prima del suo ventesimo compleanno: Marcus Messner, 1932-1952, l'unico dei suoi compagni di corso tanto sfortunato da restare ucciso nella Guerra di Corea, terminata con la firma di un armistizio il 27 luglio 1953, undici mesi prima di quando Marcus, se fosse stato in grado di mandar giù le funzioni in cappella e di tenere la bocca chiusa, si sarebbe laureato al Winesburg College - più che probabilmente come migliore del suo corso - rimandando così il momento di imparare ciò che il suo incolto padre aveva tanto cercato di insegnargli: il terribile, incomprensibile modo in cui le scelte più accidentali, più banali, addirittura più comiche, producono gli esiti più sproporzionati".

Marcus Messner è solo l'ultimo di una galleria di personaggi che Roth ha magistralmente (un avverbio non casuale, per la voce più grande, oggi, della letteratura americana, Premio Pulitzer nel 1997 per "Pastorale americana") ritratto nel corso della sua lunga e prolifica carriera di scrittore. Ancora una volta un ebreo, ancora una volta Newark come sfondo, crogiuolo di un mondo antico, sempre più distante, ma vivido, lucido e ben presente nella mente dell'autore, che vi ha ambientato molte delle sue storie. La stessa Newark è anche il luogo dove Roth, che è ebreo, ha trascorso la sua infanzia: è facile allora pensare che, nei suoi personaggi - a partire dall'alter ego Zuckermann fino all'ultimo Marcus Messner, lo scrittore abbia riversato se stesso, la sua storia.

Nel libro "Patrimonio" (uscito nel 1991, ma tradotto in Italia solo nel 2007), Philip Roth ha narrato in prima persona le vicende che ruotano attorno alla morte del padre, scomparso nel 1988 per un male incurabile. Ne descrive il lento disfacimento fisico, che lo porta alla consumazione, alla morte. C'è da riflettere: perchè raccontare così apertamente di sè, dei propri cari? Cosa spinge uno scrittore, dopo aver passato più o meno tutta la sua vita a scrivere di sè camuffandosi dietro migliaia di personaggi, a dire 'io' in prima persona? Che differenza c'è, poi, tra Roth che parla della morte del padre, e di un 'Tizio qualunque' che racconta la morte di suo padre? Al di là dell'indiscutibibile cifra stilistica, dell'altezza della prosa di Philip Roth, della sua capacità di scrivere, del suo essere uno scrittore, ciò che mi sembra evidente è che chi scrive parte sempre da se stesso. A volte nascondendosi, a volte - soprattutto raggiunta la maturità artistica - rivelandosi e agendo in prima persona. In pratica: facendosi i fatti suoi in pubblico.

La grandezza di uno scrittore, che è anche un 'autore', credo stia però in questo: trasformare il proprio vissuto - banale o eccezionale che sia - in qualcosa di esemplare, e quindi di universale. Roth non parla di suo padre e basta: sta parlando di tutti i padri, di tutti i genitori morti di cancro. Di tutti i figli alle prese con il dolore di una doppia assenza. Di un dolore unico per ciascuno e pertanto irripetibile; ma anche comune, anche se mai banale.

Un altro scrittore 'autore', che si è recentemente confermato fra i maggiori interpreti del nostro tempo, è Jonathan Franzen che nel 2006 ha pubblicato 'Zona disagio': romanzo per racconti in cui narra parte della propria vita, a partire dalla morte - anche qui - di sua madre. Franzen narra con dovizia di particolari l'ingresso nella casa di sua madre (si era accordato con il fratello per cernitare gli effetti personali e poi procedere alla vendita dell'immobile) e di come metodicamente tolga tutte le fotografie dagli scaffali, dai mobili di casa, eliminandone solo le cornici e mettendo le immagini della sua famiglia, dei suoi parenti, vivi e morti, assieme. Una presenza - le fotografie incorniciate - che avevano 'occupato', non solo idealmente, la sua infanzia. Da quella casa si dipana il filo della vita di Jonathan, fino allo straordinario racconto finale, dal titolo "Il mio problema ornitologico", dove Franzen srotola il filo della dolorosa, lenta, inevitabile separazione dalla moglie, utilizzando una particolare chiave di lettura: tenendo in primo piano la passione per il birdwatching (di cui lo stesso autore suggerisce una lettura simbolica) e facendo invece agire sullo sfondo i movimenti che condurranno alla definitiva rottura.

Un parallelo - difficile, forse improponibile - fra due scrittori così diversi è arduo. Prendendo però in esame questo specifico tema - il mettersi in prima persona, il farsi icone universali - da un lato Roth fa valere il peso della sua età (è nato nel 1933) e della sua esperienza di vita: a 76 anni, con di fronte un tratto di strada forse breve, lo scrittore non indugia in happy endings ne' tantomeno in finali aperti alla speranza (i suoi personaggi sono tutti potenzialmente autodistruttivi).
Franzen
, invece, (classe 1959) forte dei suoi cinquant'anni e del suo essere "americano", deve credere - per forza, per necessità, naturalmente - che una speranza ci sia, che la vita abbia un senso che può andare oltre la morte. Che lo possiamo cercare qui, nelle nostre storie, nelle vicende di dolore che ci accompagneranno fino al grande salto. Cesare Pavese in una lettera a Giulio Einaudi del 14 aprile 1942 scrisse: “C’è una vita da vivere, ci sono biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere.” Ecco. E poco importa, se otto anni dopo, nell'agosto del 1950, avrebbe posto fine alla sua vita con una dose eccessiva di sonniferi.

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