lunedì 30 novembre 2009

Il figlio del Nigher

Alcuni anni fa il figlio del Nigher si è suicidato, mi è tornato in mente oggi. Ha inghiottito in un momento forse di disperazione il liquido delle batterie delle autovetture. E' stato subito male e ha chiamato aiuto. Trasportato d'urgenza in ospedale, è andato in coma e poi è morto.

Suo padre era detto il "Nigher" non perchè fosse nero, ma perchè era scuro di pelle, bruciato anzi. Si chiamava Angelo Brignoli. Era un uomo basso, ancora più basso perchè era magrissimo e con l'età si era anche incurvato. Aveva la pelle stiracchiata, rugosa, con un naso aquilino pronunciato. Non alzava mai la voce, ma dicevano che alzasse invece il gomito. Portava i pantaloni allacciati in vita, molto alti. In bocca, teneva sempre la sigaretta. Per un po' di anni aveva lavorato come "strasèr", in un piccolo magazzino che insisteva su un campo che possedeva. Lì teneva dei cani, degli alberi da frutta. Proprio davanti al capannone di mio padre. Per questo lo conoscevo e mi ricordo di lui.

Sua moglie, che è ancora viva, portava i capelli raccolti in uno chignon, e ricordo che li aveva sempre avuti grigi, anche prima di invecchiare. L'espressione del viso era arcigna, come se fosse un po' arrabbiata o scocciata. Avanzava lungo la via Matteotti con la bicicletta: non sapevo da dove venisse, ma dalla fatica pensavo che venisse da lontano. Una volta il nostro cane, uscendo dal cancello, l'ha spaventata. E' caduta. E ricordo il suo ginocchio sanguinante, la calza smagliata e lei, più furiosa che spaventata, che risaliva sulla bicicletta e faceva dietrofront, per tornare a casa a cambiarsi, probabilmente.

Il figlio del Nigher, invece, era alto, magro anche lui. Non ricordo il suo nome, forse Giuseppe. Era un ragazzo buono, ma sofferente. Da piccolo aveva avuto una brutta meningite. Poi aveva ucciso con un colpo di fucile la sorella o il fratello, non ricordo bene. Un incidente. Ma qualcuno poi disse che in realtà il colpo era partito a qualcun altro, e che era stato incolpato lui, perchè era piccolo e non potevano fargli niente. Forse da lì è partita quella sofferenza, quel tormento che, unito ai postumi della meningite, lo avrebbe accompagnato sino all'ultimo giorno. Non era brutto, ma era figlio di suo padre, e questo nell'opinione comune era già una predestinazione.

Mio padre l'aveva preso a lavorare con sè, ed è per questo che io l'ho conosciuto. Il figlio del Nigher lavorava indefessamente, quando stava bene. Preciso, vigoroso, stringeva il fil di ferro per legare le balle di cotone digrignando i denti e mi insegnava a fare i nodi. Lui li faceva in modo diverso, io avevo imparato da qualcun altro. Chiacchieravamo poco, ascoltavamo la radio e passavamo le giornate fianco a fianco. A volte tornava a casa. Andava in ufficio da mio padre e gli diceva che aveva mal di testa, e mio padre lo lasciava andare. C'erano periodi in cui tutto andava bene. Altri in cui non sapevi se veniva a lavorare, quanto sarebbe rimasto; anche quando stava male, accadeva improvvisamente. Fumava pure lui, come suo padre, e quando si avvicinava il momento dell'amnesia, della caduta in quella che forse era depressione ma più probabilmente una malattia mentale, si accendeva una sigaretta dietro l'altra. Mio padre gli aveva proibito di fumare nel capannone, perchè le balle erano altamente infiammabili, ed era pieno di polvere. Quanta polvere.

Però aveva un qualche cosa, nel suo modo di essere, che esprimeva una grande dignità: ed è questo ciò che ricordo con maggiore piacere. Stava tutto dritto, e anche lui portava i pantaloni allacciati in alto, oltre la vita, come faceva suo padre. Lavorava e mi dava un esempio, e sapevo che aveva dei problemi, ma nessuno mi aveva insegnato come comportarmi con lui. Mi piaceva la sua compagnia, quando stava bene. Nel prato che mio padre ancora ha vicino al magazzino, delle volte si fermava con noi ragazzi a tirare due tiri con il pallone, ma poi sorrideva abbassando la testa, come se la cosa non fosse per lui, in un modo che lasciava intravedere anche una certa timidezza, del riserbo.

Ma solo adesso posso cercare di capire, guardando indietro, la sua sofferenza silenziosa, adesso che ho messo sulle spalle almeno 15 anni da quei giorni. Me lo immagino, in preda ad un momento di follia e lo vedo ingerire quell'acido.; e poi, tutto d'un colpo, rinsavire, per rendersi conto dell'enormità che ha appena compiuto. Lo vedo con gli occhi pieni di paura.
Poi, più niente.

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